Yoga Terapia di Roberto Laurenzi

Roberto Laurenzi – EFOA

L’idea di curare malattie, disturbi e distonie con lo Yoga ha origine nell’India arcaica, quando le classi più disagiate risolvevano il problema della pensione, abbandonando i vecchi ormai inabili o malati nelle foreste, ove avrebbero trovato una morte naturale per opera delle bestie feroci o semplicemente per inedia. 

Così iniziò il “fai da te”, che ora chiamiamo Yoga Terapia, e quei miserabili appresero a temprarsi con esercizi fisici, pratiche mentali e atti magici. 

La maggior parte di loro non ottenne risultati, ma alcuni riuscirono non solo a sopravvivere, ma a scoprire tecniche di auto-guarigione e pratiche terapeutiche che li portarono a divenire “guaritori” (keshin) anche di tutti quei poveracci che non potevano permettersi il “Vaidya”, il medico Ayurvedico che serviva solo i ricchi e i nobili. 

Costoro iniziarono ad avere discepoli e iniziarono ad abbandonare la foresta, dando inizio a uno Yoga Terapia che ancora non era definito Yoga… 

Lo Yoga apparve solo in tempi relativamente più recenti (IV°-II° sec. prima dell’era volgare), ma quando apparve virò verso una Terapia dell’Anima orientata a ricongiungersi con l’Assoluto. 

È solo in tempi recenti che nasce quello che ora noi definiamo Yoga Terapia, grazie all’attività di Svami Kuvalayananda che nel 1924 dette vita al “Kaivalyadhama Health and Yoga Research Center” a Lonavla. 

È con lui che “rinasce” lo Yoga Terapia moderno, che inizia a strutturarsi e a crearsi una propria filosofia, dei principi e delle basi operative, e come tutte le cose nuove, si disperde in una miriade di interpretazioni, la maggior parte delle quali a mio avviso risulta imbarazzante. 

In questo bailamme di interpretazioni io vi fornisco la mia.

Lo Yoga

Partiamo dallo Yoga che io interpreto come uno strumento che consente alla Mente di percepire, potenziare, ordinare il Prāna e tutti i processi psichici e psicosomatici con l’elemento più importante che possediamo: il Corpo. 

Il nostro corpo è l’espressione di ciò che noi siamo in questo momento e descrive tutta la nostra storia di ansie, vicissitudini, disfatte, intossicazioni e malattie. 

Quando la Mente va verso il Corpo, il Prāna (vitalità) lo attiva, il che avviene ininterrottamente a livello inconsapevole per opera del Sistema Nervoso Vegetativo che fornisce al Corpo la “giusta” quantità di Prāna per farlo funzionare correttamente, cercando di non sprecarlo. 

Perché meno Prāna si spreca, più Prāna si conserva, più si è vitali e più a lungo si vive. 

Il Prāna Ojas

La simbologia della Lucerna (Pradīpikā) ce lo descrive come l’olio che alimenta la Lampada della Vita, olio che ci viene fornito alla nascita e che si consuma progressivamente, causando abbassamento progressivo di vitalità e funzionalità fisiologica, con conseguente invecchiamento; quando tutto l’olio si è consumato, la Vita si spegne, insieme alla luce della coscienza e della lampada (della mente, Prakāśa)

Questa tipologia di Prāna è definita “Ojas” che potremmo tradurre con “Elisir di Lunga Vita”, nella tradizione cinese “Jīng”

Manas śaktimat Prāna: la Mente guida e conduce il Prāna

Lo Yoga ci permette di amplificare la quantità di Ojas inviata al Corpo, direzionando la Mente (“focalizzazione” o “dhāraṇā) in una specifica zona del Corpo: più tale focalizzazione sarà intensa, più la zona interessata si riempirà di Prāna (Ojas), più si vitalizierà, più sarà efficiente. 

È molto semplice farne esperienza:  

  • solleviamo entrambe le mani socchiuse, portandole lateralmente all’altezza degli occhi, 
  • solleviamo entrambi gli indici, 
  • rivolgiamo lo sguardo e la testa verso il solo indice destro 
  • e osserviamolo intensamente per un minuto. 

Ora andiamo a percepirli entrambi e noteremo che il dito osservato sarà più vivo, più caldo e apparentemente più grande. 

Se l’esercizio avesse proseguito per mezz’ora i risultati sarebbero stati eclatanti. 

Vikṛti, distonia e malattia

Se mi avete seguito, appare chiaro che ogni distonia e ogni malattia (Vikṛti = “ciò che distorce l’azione fisiologica positiva dell’organismo) sono dovute a una disconnessione totale o parziale della focalizzazione del Sistema Nervoso Vegetativo nei riguardi dell’organo o dell’apparato compromessi, che ha comportato in essi una consistente riduzione di vitalità funzionale o Ojas. 

Quando sopravviene una malattia, il metabolismo innesca una reazione acuta di infiammazione, così da aumentare la propria reattività e risolvere il problema, che, nella maggioranza dei casi, viene risolto.

Ma se non riesce a risolverlo, dopo un certo periodo, il sistema centrale “si ritira” dalla zona malata, innanzitutto a livello propriocettivo e di invio del Prāna, in modo da “accomodare” il funzionamento organico, tramite altre risorse (l’organismo ha sempre almeno un sistema sostitutivo)

A questo punto la zona “abbandonata” si trova in uno stato di attività latente e il disturbo diventa cronico e dal punto di vista medico, irreversibile. 

L’azione efficace dello Yoga Terapia

Se si verificano queste condizioni si può intervenire con lo Yoga Terapia, indirizzando volontariamente il Prāna verso la parte non reattiva, con un apposito Dhyāna terapeutico che si realizza tramite: 

  • la “visualizzazione” della zona malata, immaginandola mentalmente, 
  • la “visualizzazione” di un Prāna terapeutico (per esempio, immaginando un flusso di Prāna che scenda dalla Luna – quest’ultima potentissimo archetipo del Prāna)
  • la “veicolazione” (vāhana) di tale Prāna nella parte malata sino a crearvi un “Kanda” (lett. “bulbo”, “ricettacolo”), ovvero una sfera di Prāna che avvolge l’organo distonico di un’aura prānica terapeutica, calda e luminosa, 
  • l’arricchimento di tale Kanda con una quantità di Prāna sempre maggiore sino a quando detto Kanda inizi a pulsare come un “cuore prānico” e con esso inizi a pulsare l’organo stesso, sino al suo ripristino funzionale (il che può avvenire anche dopo più sessioni) 
  • e infine l’imposizione volontaria tramite un “comando interiore” (icchā) al Sistema Nervoso Vegetativo di tornare a prendersi in carico tale organo, ritornato in tal modo alla sua funzionalità ordinaria. 

Ma si tratta solo di Meditazione o anche di Āsana?

Lo Yoga è fondamentalmente Mente che invia Prāna al Corpo, anche quando si effettuano gli Āsana, come dice chiaramente lo Hathayogapradīpikā: 

  • non è Āsana senza Prāṇāyāma e Dhāraṇā (focalizzazione di una zona del corpo) 
  • non è Prāṇāyāma senza Āsana e Dhāraṇā
  • e non è Dhāraṇā senza Āsana e Prāṇāyāma, 

questo indica che tutto ciò va effettuato anche attraverso degli Āsana. 

  • Se si utilizzano degli Āsana meditativi (Siddhāsana, Vajrāsana, ecc.) allora tutta la pratica è prevalentemente mentale, 
  • mentre se si utilizzano degli Āsana che vanno a stimolare la zona da trattare, allora la pratica è più conforme ai dettami dello Haṭhayoga. 

Tuttavia è bene iniziare dalla pratica esclusivamente mentale, in modo da apprendere correttamente il metodo e il processo, per poi passare progressivamente all’utilizzo di posizioni che stimolino le zone interessate, dal momento che si rischierebbe di effettuare solo delle posizioni fisiche, private di tutto il potenziale del Dhyāna che è alla base del funzionamento efficace della pratica. 

Troppo spesso infatti si crede che una posizione sia terapeutica, quando invece resta un semplice esercizio fisico (che non è nemmeno Yoga), con una coscienza dispersa all’esterno (parāṇga cetanā) e priva di qualunque “presenza propriocettiva” (pratyaka cetanā upasthiti) del proprio corpo. 

Ancor più complesso è l’uso del Prāṇāyāma a scopo terapeutico il cui utilizzo va conosciuto passo dopo passo e rappresenta l’elemento conclusivo della tecnica perfetta dello Yoga Terapia. 

Alcune considerazioni

Spesso i praticanti sono ingannati da alcune affermazioni che ritroviamo nei testi classici come lo “Hathayogapradīpikā”, il “Gheraṇḍa Samitha” e lo “Śiva Samitha” ove viene descritta la stretta correlazione tra una specifica posizione e la cura di malattie e distonie. 

È opportuno sapere che i testi classici sono sempre stati “incompleti”, così da permettere al maestro di impartire l’insegnamento ai discepoli meritevoli e di mantenere un controllo su di essi, tanto che essi erano scritti in “linguaggio crepuscolare” (sāṃdhyābhāṣā – v. Mircea Eliade), ove si vede l’ombra delle cose in controluce, così da nasconderla in gran parte. 

Facciamo un piccolo esempio: se vogliamo stimolare la tiroide, assumendo la Posizione della Candela (Sarvāngāsana), avverrà che la nostra tiroide verrà compressa, il che comporterà: 

  • assolutamente nulla, nella maggior parte dei casi 
  • un danno in qualche caso, 
  • un effetto benefico in un numero ridottissimo di casi. 

Se invece effettuiamo un Dhyāna da seduti, immaginando di veicolare “Ojas prāna” verso di essa, di creavi intorno un “ricettacolo di prāna”, caldo, luminoso e pulsante, mantenendovelo sino a percepire il riattivarsi prānico di tale ghiandola, tramite un suo “pulsare immateriale”, a cui seguirà una scarica psicosomatica di un “Nāgādi Vāyu”, cioè una scossa, un sussulto, un fremito, un borborigmo, un rutto, un tremore o altro, indicante che la tensione si è scaricata nel corpo ed è uscita da esso, allora saremo riusciti a riattivarla. 

E se effettueremo tutto ciò proprio in Sarvāngāsana, allora l’intervento sarà ancora più efficace, perché vi parteciperà anche il corpo. 

E se aggiungeremo in contemporanea una pratica ben realizzata di “Nāḍīśodhana Prāṇāyāma” (ovvero non limitata al solo respiro, ma pregna di un Prāna correttamente immaginato e ricco di tutte le sue proprietà sottili), allora il risultato sarà ancor più eclatante. 

Semplici esercizi per iniziare lo Yoga Terapia (Yoga Cikitsā)

Iniziate con l’esercizio con le due dita descritto più in alto, protraendolo sino a mezz’ora, constatandone i risultati. 

Poi passate a un’altra parte delle membra e poi ad altre parti ancora, sempre per mezz’ora. 

Poi rivolgetevi a un vostro organo interno, poi a un altro e un altro ancora. 

Quindi passate ai vari apparati e sistemi. 

E infine all’intero Organismo, dedicandovi sempre più tempo e realizzando risultati che vi appariranno eclatanti. 

Buona pratica.

Arco – Dhanurasana

La posizione dell’Arco è una posizione potente che agisce a livello fisico, pranico, mentale, spirituale e terapeutico. Inizialmente è sufficiente praticarla anche solo in fase dinamica per ottenerne incredibili benefici, ma il massimo si raggiunge quando la si padroneggia e si riesce a tenere senza sforzo anche per varie decine di minuti.

Azione a livello fisico

L’Arco agisce potentemente sugli organi addominali. Nella fase dinamica, si effettua un vero e proprio massaggio dell’addome che rivitalizza l’intera zona, riscaldandola e rilassandola.

Nella posizione statica finale si attua una forte compressione intra-addominale che “strizza” gli organi ivi contenuti come una spugna, espellendo il sangue venoso e rimandandolo verso il cuore. Questa azione non solo consente di eliminare il sangue oramai depauperato di ossigeno, ma anche di “sgonfiare” gli organi stessi, facendo ritrovare ad essi, la propria forma originale e contribuendo a diminuire od eliminare la ptosi.

Una volta rilasciata la posizione, quegli stessi organi si andranno a riempire di sangue arterioso fresco, che li rivitalizzerà.

Azione a livello pranico

Rimanendo nella posizione in fase statica e continuando a respirarvi profondamente, si andrà a stimolare l’afflusso pranico in quella zona, che tenderà immediatamente a riscaldarsi e vitalizzarsi.

Questo farà aumentare tapas, il fuoco pranico interno che potenzierà la quantità di vitalità (Virya) contenuta in noi, contribuendo a far divenire il soggetto sempre più forte, potente e carismatico, tale da suscitare in chi lo circonda, un senso di rispetto.

Quanto più il praticante rimarrà in fase statica, respirando profondamente, tanto più diverrà potente, cioè ricco e ridondante di Prana-Shakti, la Potenza Pranica cosmica.

Azione a livello mentale

La posizione dell’Arco contiene in sé l’archetipo del guerriero (Virat) e, dunque, contribuisce a sviluppare quella parte marziale della mente che chiamiamo la volontà (Iccha).

Lo stesso sforzo fisico deve essere sostenuto tramite una forte e ferma volontà mentale, senza la quale il praticante cederebbe molto prima di quanto potrebbe.

Azione a livello spirituale

Il personaggio centrale della Bagavad-Gîtâ è Arjiuna, l’Arciere, il prototipo dell’uomo che va realizzandosi. Di conseguenza questa posizione contiene l’Archetipo della realizzazione più elevata che si realizza quando la freccia (della mente) raggiunge il suo bersaglio (il cuore), realizzando l’intuizione superiore.

E questa posizione, nel mentre la attuiamo con l’intento rivolto a questo fine, contribuisce a farci realizzare la nostra natura più profonda.

Azione a livello terapeutico

Questa posizione fa aumentare considerevolmente Agni, il fuoco digestivo che permette: di metabolizzare Ama, le tossine accumulate nei vari organi e tessuti, di migliorare la capacità digestiva, di aumentare la resistenza e la reattività alle malattie e, non ultimo, di digerire ogni forma di stress e tensioni mentali ed emotive provenienti dall’esterno.

Per ottenere tutto questo, si richiede una pratica più intensa dell’ordinario, dell’ordine di almeno 15 minuti.

Tecnica

Posizione di Partenza:

Distesi sull’addome, fronte a terra, braccia lungo il corpo con il dorso a terra, gambe e piedi vicini.

Rilassarsi profondamente, poi portare l’attenzione sul respiro, equilibrandolo tra inspirazione ed espirazione. Ampliarlo progressivamente, sentendolo spingere nell’addome e nella pancia. Massaggiarsi i visceri e gli organi interni tramite questo respiro addominale. Aumentarne progressivamente l’intensità e la potenza, mantenendo comunque un respiro calmo e profondo, sino ad arrivare a traspirare. Identificarsi completamente con il respiro.

Fase dinamica:

A questo punto, flettere e sollevare le gambe, portandole verso la nuca, in modo da permettere alle mani di afferrare le caviglie.

Inspirando, tiriamo le gambe con le braccia, facendole sollevare (foto 2).

Effettuiamo tre respiri profondi, poi, trattenendo, iniziamo a dondolare il corpo in avanti ed indietro, effettuando un profondo massaggio dell’addome (foto 3-4). Torniamo in fase statica e, volendo, dopo aver effettuato tre respiri intensi, possiamo ripetere una o più volte il movimento.

Presa della Posizione:

Rimaniamo nella posizione, migliorandola ad ogni respiro, tirando progressivamente con le braccia ed allentando le articolazioni coxo-femorali (foto 5).

Respiriamo intensamente, aumentando progressivamente in una prima fase la sola inspirazione, ed in una seconda anche l’espirazione.

Introduciamo, poi, al termine dell’inspirazione, dei momenti di sospensione a pieno, che cureremo di intensificare progressivamente, sino a raggiungere il massimo delle nostre possibilità, compatibile con il mantenimento di una espirazione agiata. Durante questa fase andiamo a migliorare la nostra forza e la nostra potenza.

A questo punto, se ci è possibile, introduciamo al termine dell’espirazione anche dei momenti di sospensione a vuoto, durante i quali cercheremo di intensificare e migliorare la posizione.

Manteniamo la posizione per almeno 3 minuti, con l’obbiettivo di raggiungere nel tempo i 10-15 minuti. In ogni caso, non arriviamo mai a stancarci, cioè al punto da alterare significativamente il nostro respiro o il nostro battito cardiaco. Se ancora non siamo in grado di mantenere nemmeno i 3 minuti, allora, torniamo a terra ed effettuiamo l’esercizio una seconda o, se è il caso, una terza volta.

Ritorno dalla Posizione:

Torniamo lentamente verso terra, effettuando un’espirazione particolarmente lenta, che duri almeno due volte l’espirazione che abbiamo utilizzata nella posizione, meglio se ancora più lunga.

Ci distendiamo sull’addome (foto 6), nella posizione del Coccodrillo (Makarasana), portando i gomiti in avanti ed incrociando i polsi sotto la fronte, divaricando le gambe ed i piedi, con i malleoli interni che poggiano a terra.

Abbandoniamoci completamente alle sensazioni residue, lasciando che la nostra intelligenza del corpo “digerisca” quanto effettuato. Il respiro è spontaneo e leggero. La mente vigile è neutra e distaccata, in quanto tutto deve essere gestito dalla mente corporea.

Quando sentiamo di aver metabolizzato il tutto, effettuiamo una profonda ispirazione, tratteniamo a lungo a pieno, poi, effettuando un intenso sospiro, ci apriamo all’esterno, ritrovando la posizione seduta a gambe incrociate (Sukhasana) (foto 7).

Rimaniamo ad occhi aperti, gustando gli effetti residui che continuano a manifestarsi in noi, senza giudicare, né interpretare quanto sta avvenendo, ma, semplicemente, vivendo le sensazioni.

Roberto Laurenzi

Cobra – Bujangasana

Tecnica

Posizione di partenza:

Ci distendiamo proni, con le braccia lungo il corpo. Gambe unite, piedi uniti. Rilassiamo tutto il corpo, cercando di eliminare ogni tensione parassita. Abbandoniamoci completamente alla posizione, cercando di sentire la pesantezza del corpo, in modo da rilasciare l’intero apparato muscolare. Portiamo la nostra attenzione sulle zone ancora tese, in modo da neutralizzarle.

Portiamo ora la nostra attenzione sulle articolazioni, decontraendole. In particolar modo curiamo le articolazioni coxo-femorali e quelle del cingolo scapolare.

Percorriamo mentalmente più volte la nostra colonna, dal basso in alto e dall’alto in basso, cercando di percepire ogni vertebra, allentandone le tensioni muscolari, anche attraverso l’espiro.

Una volta ottenuto lo stato di rilasciamento ottimale, concentriamoci sulla respirazione, equilibrandola e rendendola spontanea e naturale.

Quando il flusso respiratorio si è stabilizzato, andiamo progressivamente ad aumentarlo, eventualmente utilizzando l’ujjayi.

Quindi facciamo scorrere mentalmente questo respiro potenziato lungo la colonna (cervicali comprese). Successivamente portiamolo alle articolazioni coxo-femorali.

Presa della posizione:

Portiamo i gomiti a terra, all’altezza delle spalle.

Inspirando, ci solleviamo da terra, inarcando la colonna, e solleviamo il tronco e la testa, senza arrivare al nostro massimo.

Espirando, torniamo lentamente a terra, con lo stesso tempo dell’inspirazione.

Effettuiamo più volte questo movimento dinamico.

Quindi stringiamo i gomiti, poggiandoli a terra sotto le spalle, e rimaniamo in fase statica, nella posizione della Sfinge.

Curiamo di inarcare il più possibile la colonna all’altezza delle scapole. Tiriamo indietro il mento, facendolo poggiare sulla gola, e cerchiamo di tirare indietro il più possibile il collo, cercando di portare il viso in posizione frontale (perché, tendenzialmente, tende a guardare verso il basso, in conseguenza di scarsa mobilità tra le scapole).

Respiriamo profondamente, cercando con ogni respiro di mobilizzare al meglio la colonna, soprattutto a livello scapolare e della settima cervicale. Allentiamo le tensioni nella parte anteriore del collo, liberando le clavicole.

Con una profonda e lenta espirazione, torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo le mani a terra, collocandole all’altezza delle spalle, effettuando più volte il medesimo movimento sopra descritto. In fase statica, respiriamo profondamente, inarcando sempre meglio la colonna ad ogni respiro. Quindi torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo, ora, le mani all’altezza delle costole fluttuani (se siamo molto sciolti, al’altezza della vita) e ripetiamo alcune volte la fase dinamica.

Dopo cinque o sei movimenti dinamici, raggiungiamo la fase statica, rimanendo nella posizione finale.

Facciamo scorrere più volte il respiro lungo la colonna, migliorando ogni volta la posizione.

Concentriamoci ora nel petto. Portiamoci il respiro, facendovelo espandere. Il respiro diviene sempre più intenso e ci porta ad espandere progressivamente il torace in avanti. Contemporaneamente andiamo ad allentare le tensioni intercostali ed il nostro torace diviene sempre più sciolto e mobile.

Portiamo, ora, la nostra attenzione respiratoria tra le scapole, inviandovi una sempre maggiore quantità di aria ad ogni respiro, inarcando sempre più questa zona.

Spostiamo, la nostra attenzione all’interno dello spazio tra le sopracciglia, e respiriamovi con sempre maggiore intensità, sino a raggiungere uno stato di euforia.

Abbandoniamo momentaneamente il respiro controllato, lasciandolo alla spontaneità conquistata, ed andiamo a controllare e rilasciare ogni tensione corporea, concentrandoci soprattutto: sui glutei, sugli sfinteri, sulle gambe, rilasciando al massimo ognuna di queste parti.

Pratica di potenza:

Torniamo, ora, a concentrarci sul respiro, amplificandolo progressivamente.

Raggiunto il massimo respiro equilibrato, immaginiamo che l’aria che entra in noi sia permeata di luce.

Seguiamone mentalmente il percorso lungo le narici, sino ai sinus frontali, dietro le sopracciglia, ed assorbiamo in questa zona questa Potenza Luminosa (Prakasha Shakti), sino a sentire che emettiamo luce dal Terzo Occhio.

A questo punto, continuando a percepire la luminosità tra le sopracciglia, conduciamo il respiro permeato di luce nei polmoni, riempiendoli anch’essi di Potenza Luminosa, sino a sentire che questa si espande al centro del petto, irradiandosi verso l’esterno.

Mantenendo anche questa seconda percezione, portiamo il respiro permeato di Potenza Luminosa lungo tutta la colonna, sino a che anch’essa sia interamente imbevuta ed irraggi luminosità.

Distacchiamoci dall’attenzione sul respiro, che continuerà spontaneamente, e concentriamoci sulle tre zone che stanno irradiando Potenza Luminosa, realizzando entro di noi l’espressione vivente di questa Potenza.

Stacchiamoci anche da questa attenzione, preparandoci ad abbandonare la posizione. Queste tre zone continueranno, comunque, ad irraggiare luminosità spontaneamente, ancora per parecchio tempo.

EFOA International

Uscita dalla posizione:

Solleviamo il mento, inarcando il capo all’indietro e, contemporaneamente, solleviamo le gambe alla verticale, flettendo le ginocchia, che rimangono saldamente a terra. Rimaniamo in questa posizione per alcune respirazioni. Poi riportiamo le gambe a terra, rilasciandole, e facciamo scendere la testa, lasciando che prenda la sua posizione naturale per la nostra conformazione strutturale.

Quindi, portiamo la nostra attenzione sulle mani e sulla forza con cui poggiano a terra. Sostenendoci adeguatamente, effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo e, espirando lungamente, torniamo a terra con estrema lentezza, abbandonandoci completamente.

Allunghiamo le braccia oltre la testa, fronte poggiata a terra, nella posizione della Prosternazione, e lasciamo andare alla pesantezza, abbandonando ogni tensione, ogni attenzione, ogni pensiero, lasciando che l’Intelligenza del Corpo metabolizzi quanto effettuato. Rimaniamo in questo stato di torpore, il tempo che riteniamo necessario.

Poi, lentamente, ci portiamo in posizione Seduta (Sukhasana).

Qui riviviamo le sensazioni residue, godendo del riverbero luminoso delle tre zone che ancora andrà manifestandosi.

Rimaniamo in questa condizione tutto il tempo che riteniamo gradevole, quindi effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo, e, tramite un profondo, intenso e liberatorio sospiro, ci apriamo all’esterno.

Roberto Laurenzi

IN CONTINUA EVOLUZIONE

di Laura Bonomini

E’ appena terminata l’annualità di Pranayama in cui abbiamo imparato a governare e guidare il nostro respiro e la nostra forza vitale nel corpo. Attraverso volontà e intenzione mentale, il soffio del respiro, impregnato di Prana, ci purifica e cambia il nostro stato psico-fisico.

Grazie alle tecniche di Pranayama, ho potuto riscoprire quello che il bambino, negli anni della prima infanzia, sperimenta e vive ogni giorno: la sua carica vitale gli permette di mantenere una mente sveglia, attiva, pronta ad apprendere e a conoscere il mondo. E della sua conoscenza fa tesoro.

Ritornare in un certo senso bambina, ma con una mente da adulta, mi ha permesso di trovare un significato più profondo riguardo al mio percorso di studio dello Yoga in Efoa.

Françoise mi ha aperto un mondo, il mondo del mio io.

Ho ancora tantissimo da scoprire ed è incredibile come kapalabhati dopo kaphalabati, dhauti dopo dhauti, bandha dopo bandha, nadi sodhana, bastrika … io non mi stanchi mai di osservare e di annotare nella mente quello che mi succede di volta in volta.

E’ un cammino evolutivo che non finirà mai, in cui si aprono ogni giorno nuove frontiere: tutte le esperienze mi lasciano una sensazione di libertà, libertà dalla gabbia dei condizionamenti, dalle approvazioni che ricercavo dagli altri, dall’illusione dei successi che pensavo di meritare, dagli affetti che supplicavo e che non ottenevo … davvero non immaginavo!

E pensare che mi sono avvicinata allo yoga con la semplice aspettativa di lenire i miei disturbi fisici!!

Ora assaporo, senza quella fretta che mi caratterizzava, il momento, la lentezza, la pace la tranquillità. Mi sveglio col sorriso e con l’entusiasmo. Mi sono anche domandata: “ma dov’ero prima ? , dove sono stata tutti questi anni? cosa rincorrevo?“ Arrivata a questo punto non mi interessa più quello che ero: l’importante è che io sia qui, ora, in questo preciso istante.

Lo Yoga della Potenza

La filosofia alla quale si ispira la nostra scuola dell’Efoa è quella del Tantra (ne sto leggendo alcuni libri e non riesco ad ultimarli, perché non voglio… credo… a questo punto; quindi torno sempre indietro a riappropriarmi di alcuni tesori e a riflettere su alcuni passi, per crearmi una scusa e non completarli mai!!)

La parola sanscrita Tantra è composta dalla radice Tan (estendere, espandere) e il suffisso Tra (trama, tessuto). Il significato del termine è quindi quello di espandere una trama, un tessuto ovvero la nostra coscienza umana, individuale, che si ricongiunge con la coscienza universale.

Noi apparteniamo all’Universo, non abbiamo ricordi in merito a vite precedenti e non vi è alcuna certezza sull’aldilà.

Françoise cita spesso a questo proposito la famosa frase di Socrate “so di non sapere”. Meglio non farsi illusioni, meglio vivere nel presente, perché possiamo facilmente verificare che questa nostra manifestazione umana ha in sé tutta la potenza del divino che l’ha generata (ogni nostra cellula ha le caratteristiche di un piccolo mondo!).

Un gioco della Vita nell’Universo

In realtà potremmo considerarci come un gioco della Vita dell’universo, che a un certo punto (per una ragione che ignoriamo) ha deciso di identificarci in una forma terrestre, e quando il nostro ciclo sarà terminato, ritorneremo a far parte del Tutto, di nuovo anonimi e probabilmente inconsapevoli.

Questa Entità che gestisce il gioco dell’Universo, con caratteristiche divine, era chiamata da André van Lysebeth “il grande architetto”. Definizione più che azzeccata.

L’idea di ritornare nella ciclicità della Vita dell’Universo, al termine della mia Vita terrena, mi tranquillizza moltissimo.

Da questo semplice pensiero si evince che, poiché faccio parte di qualcosa di più grande di me e in me si rispecchiano qualità di natura divina, ho il dovere di portare avanti il progetto della Vita che mi è stata affidata e devo farlo nel migliore dei modi.

Essendo legati al Tutto ogni nostra azione avrà un riflesso sul Tutto, anche ad enormi distanze, proprio come un disturbo che si manifesta in una parte anche piccola e periferica del nostro corpo e che si ripercuote inesorabilmente sull’intero benessere psico-fisico.

Nel nostro microcosmo, l’Essere Supremo e creatore è la mente. Il corpo è il supporto della mente; le permette di trasformare i suoi pensieri in azioni: quindi il corpo deve diventare il tempio della mente, che rispecchia il divino in noi .

Ricollegandoci allo Yoga, è facile trovare il vero significato degli Asana: questi diventano un allenamento, una palestra di vita in grado di farci riscoprire il nostro vero potenziale e farlo riportare nella realtà di tutti i giorni, in ogni singolo gesto.

In questo nostro passaggio sulla Terra tenteremo di realizzare Purna, la completezza, caratteristica propria dell’aldilà, dato che in noi alberga tutta la potenza del divino che ci ha creati .

La prima sequenza dello Yoga della Potenza

Durante la prima lezione di Asana abbiamo sperimentato la possibilità di attingere dalle forze cosmiche e terrestri un Prana puro e potente al tempo stesso, in grado di vitalizzare la nostra riserva pranica, contenuta nei Kanda principali dell’addome e del cuore (centro del torace).

Riconnettermi a Prana Shakti (la Potenza Creatrice) attraverso i Kanda, i punti Marma e le Nadi mi ha dato la sensazione concreta di aver acquisito grandezza e forza interiore.

Ho realizzato che la mia mente è in grado di immagazzinare il Prana dell’Universo quando ho avvertito i risultati, inizialmente sottoforma di grande calore localizzato nella sfera dell’addome e in seguito di un dolce tepore diffuso nella zona del petto.

Al termine della sequenza e per alcuni giorni una strana sensazione si è impadronita di me: la definirei come una forma di ardore, una spinta vitale che ha animato la mia quotidianità, l’ha resa “speciale”.

Probabilmente mi ci abituerò e quindi tutto sembrerà più normale, ma sono convinta che quando ci sintonizziamo con Prana Shakti emergono le nostre potenzialità latenti, inespresse, da tempo sopite nella profondità della nostra anima.

Con le sequenze dello Yoga della Potenza ci riapriamo, ritroviamo un rapporto di interscambio fra il nostro centro e le forze della natura, rimanendo consapevoli di essere individui unici ma, al tempo stesso, connessi all’intero Universo, dal quale veniamo e al quale ritorneremo.

LA FLESSIONE INDIETRO

di Gaia Zanchini

All’interno della pratica di Hatha Yoga sono molte le posizioni che richiedono al nostro corpo, e con esso alla nostra mente, di flettersi all’indietro.

Anche la flessione all’indietro, come la sua antitesi (la flessione in avanti), ha una forte valenza significativa che ci porta costantemente a traslare la pratica sul tappetino nella vita reale.

Niente di quello che facciamo nella pratica è meccanico e privo di significato: ancora una volta andremo a giocare con un movimento, già conosciuto, che diventa nuovo, aiutandoci ad aprire uno “spazio” vitale molto importante.

All’interno del torace ha sede il nostro cuore: esso, essendo lo spazio dove ci identifichiamo, nonché il primo organo che si forma nel feto, rappresenta il nostro sole interiore che attraverso il suo pulsare ci dà la forza per poterci realizzare e relazionare con il mondo esterno. Il cuore ha una sua struttura elettrica, non ha bisogno dei nervi del cervello, è indipendente e serve tutto il nostro organismo attraverso il suo pulsare continuo.

Le flessioni all’indietro vanno a mobilizzare lo spazio del torace, cioè lo spazio dell’Io: portare la nostra attenzione su questa parte del corpo e “aprirla” con il movimento e la consapevolezza, ci può aiutare a rafforzare la percezione di noi stessi, permettendoci di trovare fondamenta solide in ciò che siamo e re-imparando a stare bene con noi.

Nelle flessioni all’indietro andiamo ad espanderci, evidenziando lo spazio del torace, del nostro Io, in un gesto di per sé contro natura.

Andare contro natura ha in questo caso una valenza positiva: significa compiere un gesto che non usiamo nella quotidianità, poiché non previsto dalla nostra struttura articolare, ma che diventa importante per aiutarci ad affermare la nostra volontà e con essa la nostra persona.

Attraverso questo movimento, noi dobbiamo svincolarci dal nostro legame con la natura vincendo, con la forza di volontà nonché la forza fisica, la forza di gravità che ci costringerebbe altrimenti a muoverci solo verso il basso. Cerchiamo con questo movimento la nostra forza e la nostra libertà.

Una volta compresa la qualità e la valenza di questo gesto, andremo a metterlo in pratica “per sentire” come tutto questo può essere reale. La pratica della sequenza che ci è stata proposta durante la lezione è stata fondamentale per permetterci di imparare a fletterci all’indietro in maniera spontanea e senza sforzo.

La mia pratica di Hasta Uttanasana:

In piedi mi appoggio, cercando la stabilità e la sicurezza.

I miei piedi sono ben ancorati alla terra diventando un punto di solidità e di potenza: è da lì che raccolgo la forza per elevarmi ed aprirmi all’indietro.

Resto in ascolto del mio respiro cercando di percepirlo senza influenzarlo e così appoggio anche lui, radicandolo.

Quando tutto è quieto e stabile mi preparo per elevarmi. Espiro portando la mente nello spazio del torace, al cuore pulsante, e poi, inspirando, comincio ad espandermi prendendo la forza dall’appoggio dei miei piedi. In questo movimento di espansione che nasce dal basso fletto in avanti le ginocchia per proteggere la zona lombare mentre lascio scivolare in avanti il pube.

A questo punto espando il torace allungando le braccia verso l’alto. Le mie braccia alzandosi non tirano all’indietro bloccando l’espansione e raccorciando la struttura posteriore che andrebbe così a comprimersi, bensì si allungano verso l’alto, con uno stiramento che parte dalle falangi, accompagnando armoniosamente il movimento di espansione del torace.

Nella flessione all’indietro il mio corpo mantiene le proprie lordosi (piedi, ginocchia, zona lombare e collo) al fine di far sì che la forma abbia la propria mobilità e respiri. Una forma, asana, che non è mobile, senza respiro, può creare blocchi importanti a livello del corpo e della mente. Arrivo nella posizione e sento che in essa il mio corpo respira.

Flettersi all’indietro, seguendo questo percorso, ha significato per me arrivare ad una forma stabile e forte dove ho desiderato “indugiare e stare” pienamente.

E’ in questo movimento che ho imparato a sentire l’espansione posteriore del torace trovando qui il mio IO.

Le flessioni in avanti

di Dania Bicchierai

Una gestualità naturale

I movimenti che compiamo nella vita quotidiana si realizzano quasi esclusivamente in avanti; proprio per questo motivo è estremamente importante utilizzare uno schema corretto di questo tipo di mobilità. Quando ci spostiamo, nel camminare o correre, o muoviamo le mani per afferrare un oggetto, lo facciamo prevalentemente nello spazio davanti al corpo.

La flessione in avanti, inoltre, corrisponde ad una forma estremamente naturale per il corpo, in quanto costituisce la posizione mantenuta dal feto durante tutta la permanenza nel grembo materno. È anche la posizione che assumiamo naturalmente addormentandoci da seduti, quando il corpo si ripiega spontaneamente su sé stesso.

Aspetti fisici:

Sinergia delle catene

Nella nostra gestualità vengono attivate tutte le catene posturali, ma in ogni specifico atteggiamento una di esse risulta maggiormente coinvolta. Spesso la catene anteriore e quella posteriore vengono considerate “antagoniste”; in realtà la scioltezza del movimento deriva proprio dalla loro azione sinergica. Le due catene devono funzionare in perfetta complementarietà, cosicché all’attivazione di una corrisponda un rilasciamento dell’altra.

Nello specifico, le flessioni in avanti si realizzano attraverso un’attivazione della struttura anteriore, contestualmente al rilasciamento di quella posteriore. Flettendosi in avanti la struttura posteriore, ordinariamente utilizzata per raddrizzarci e mantenere la verticalità, dev’essere in grado di rilasciarsi per agevolare il piegamento.

Nel mantenimento dell’asana è opportuno focalizzare l’attenzione soprattutto sul nostro spazio anteriore, che viene attivato per potenziare il senso dell’appoggio e della chiusura che caratterizzano i piegamenti in avanti.

Uso di anche e bacino

Per non sovraccaricare la colonna vertebrale è fondamentale realizzare i piegamenti in avanti a partire dalle anche e dal bacino. Le anche costituiscono infatti il perno che collega il tronco alle gambe, articolando il femore sul bacino. L’allungamento posteriore deve sempre essere realizzato a partire dalla anche, in modo da evitare che si manifesti la retropulsione delle ginocchia; è importante, quindi, fare attenzione a preservare la naturale lordosi delle gambe.

Uso dei piedi

La mobilità delle anche, a sua volta, è favorita da un corretto utilizzo di piedi e caviglie. In particolare, un fulcro fondamentale per l’allungamento posteriore è costituito proprio dallo scivolamento in avanti dei talloni (da non confondersi col portare i piedi a martello, che provoca invece un raccorciamento).

Il respiro sulla colonna

Se non riesce a respirare, la colonna può essere rigida e “paralizzata” anche se esteriormente appare molto flessa.

La vera scioltezza è data dalla capacità di preservare la corretta vitalità della spina dorsale, grazie al realizzarsi del suo naturale ondeggiare dato dal respiro in qualunque posizione ci si trovi. I dischi inter-vertebrali sono alimentati per osmosi dalla circolazione linfatica grazie al movimento del diaframma, che con l’inspiro determina una decompressione e un allungamento della colonna, e con l’espiro la riporta in una posizione neutra, che corrisponde ad una lieve naturale compressione dei dischi.

Questo meccanismo di pompaggio consente il metabolismo del disco, determinato dall’azione ritmata di assorbimento ed eliminazione, promuovendo la salute dei dischi e la vitalità della colonna.

Proponiamo asana in avanti non per arrivare a piegarsi sempre di più, ma per imparare a far respirare la colonna in posizioni sempre più complesse (per es. Halasana).

Aspetto respiratorio:

Nelle flessioni in avanti la fase respiratoria fondamentale è l’espiro.

L’attivazione e la contrazione dello spazio anteriore del corpo (per esempio in Pashimottanasana) ci permette di arrotolarci maggiormente in avanti, attivando ulteriormente la chiusura ed evidenziando l’aspetto “terra” della posizione. Inoltre, l’espirazione è naturalmente favorita dalla Gravità, cosicché basta abbandonarvisi perché possa avvenire spontaneamente, senza alcuno sforzo.

Nello Yoga, rispetto al modo di respirare ordinario, l’espiro viene reso attivo e potente, in modo che venga concentrata al centro dell’addome la forza che poi scaturirà in un inspiro ampio e nutriente.

Aspetti psichici:

Mettere il corpo in una determinata forma ha anche ben precisi effetti interiori: non si tratta, dunque, soltanto di flettere il corpo, ma di indurre una specifica dimensione psichica. A livello mentale, anche inconscio, “andare avanti” ha un’accezione positiva, correlata con l’assecondare il flusso della vita ed esserne parte.

La gravità e l’elemento Terra

Le posizioni in avanti potenziano il nostro senso dell’appoggio e la capacità di relazionarci con la Terra, con tutto il suo significato simbolico.

Le posizioni di flessione, infatti, portano tendenzialmente verso terra, mentre se dobbiamo metterci in azione è necessario svincolarsi dalla gravità per poter vivere la verticalità.

Viene attivato un tipo di Prana che corrisponde al soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali legati alla sopravvivenza: il nutrimento, il sentirsi accolti e sostenuti, la capacità di abbandonarsi per poter dormire e rigenerarsi.

Questi elementi sono imprescindibili per accumulare il potenziale che ci possa permettere poi, eventualmente, di attivarci e svincolarci dalla Gravità e dalla Natura, come avviene ad esempio nelle flessioni indietro.

Chiusura e interiorizzazione

Le posizioni di flessione in avanti vengono associate alla chiusura: la forma che diamo al corpo corrisponde ad un ben preciso atteggiamento interiore, che in questo caso sarà di interiorizzazione.

Ripiegarsi e avvolgersi su sé stessi porta a rientrare nel proprio spazio, dove ci possiamo sentire al sicuro, in un atteggiamento di riflessione e raccoglimento.

Rilasciamento

Le posizioni in avanti generano un tipo di prana che nella vita ordinaria corrisponde a quello necessario per abbandonarci e lasciarci andare.

Se non siamo in grado di abbandonarci non possiamo dormire, e il sonno rappresenta uno dei nutrimenti fondamentali per la vita.

Nel quotidiano, dunque, questa tipologia di prana corrisponde ad atteggiamento di tipo passivo, che nello Yoga diventa una forma attiva di rilasciamento, in cui la mente non abbandona il corpo, ma resta vigile.

TUTTO E’ IN TORSIONE NELL’UNIVERSO

di Paola Cosolo Marangon

Se ci si muove stimolati dalle cose esterne, questo è l’istinto dell’essere. Quando ci si muove senza venire stimolati dalle cose esterne, questo è il movimento del cielo.

Il segreto del fiore d’oro – Bollati Boringhieri, Milano, 2016 (prima ed. It.1981) pag.126

La riflessione per la settima lezione di Asana parte da una frase di Françoise: “se pensate all’universo, tutto si muove in torsione”.

Abbiamo praticato alcuni asana considerando la torsione quale elemento fondamentale del lavoro interiore. Abbiamo lavorato su noi stessi e sulla percezione dell’IO, partendo dalla respirazione toracica: non solo il costato anteriore, ma soprattutto quello posteriore. La lezione pratica è andata via via a concentrarsi sul corpo, sul lavoro dei muscoli, sulle attivazioni delle catene posturali.

Al rientro a casa, si ripete la lezione mettendosi sul tappetino e tentando di comprendere anche senza la presenza del maestro. E’ questa attivazione che favorisce il lavoro che deve essere portato fuori dallo spazio sacro del tappetino, per diventare vita.

La mia attitudine allo Yoga non si basa solo sulla sperimentazione con il corpo, non mi basta vivere mettendo in pratica, ho bisogno di capire e di approfondire, ho bisogno di studiare e di cercare sempre nuovi stimoli per far diventare quella pratica sul tappetino Vita e significato significante per il mio quotidiano.

La mia curiosità

La frase di Françoise sulla torsione ha continuato a balenare in testa: ho iniziato a verificare che, in effetti, il lavoro in torsione accompagna tutta la nostra giornata, i nostri movimenti, le azioni da quelle banali a quelle più complesse. Poi, mi sono detta, anche i nostri pensieri lavorano in torsione, si avviluppano senza necessariamente diventare “vritti”, si concatenano e danno forma a ulteriori ragionamenti.

E, inseguendo questi pensieri, mi è balzato alla mente un testo molto caro, “Il segreto del fiore d’oro”, con commento di C.G.Jung.

L’ho letto più volte e mano a mano che procedeva il corso di approfondimento con gli insegnanti i yoga ho visto i limiti dei commenti di Jung, ma ho colto anche tante piccole assonanze che forse nemmeno lui sapeva di aver colto.

Il mandala

Una di queste ha a che fare con la torsione. Uno dei mandala che sono contenuti nel libro (tavola 8) parte da un neonato inserito nella sfera di luce e attorniato da un vortice di colori in torsione. Jung lo ha interpretato come “il bambino nella vescica germinale con i quattro colori fondamentali durante il suo moto rotatorio”.

Mi soddisfa anche questa definizione, ma ancor più vi ho trovato l’origine stessa del creato, del mondo che dir si voglia. Quel germe che, mitologicamente parlando, ha fatto scaturire quell’inizio da cui poi è derivato il mondo intero.

Perchè ho voluto fare questa sottolineatura?

Per me è semplice: non ha alcun significato mettersi sul tappetino a costruire forme, se non ci si sente parte di un unico grande moto che interessa tutti gli esseri viventi.

Yoga per me è appartenere a questo universo; nella mia forma umana, trovo consapevolezza maggiore quando, attraverso il respiro, l’attivazione del prana, la volontà, individuo la coscienza come un piccolo aspetto del Tutto. Molecole, non cerco altro, ma le stesse molecole dell’Universo.

Asana

di Dania Bicchierai

Significato di Asana

Asana significa “seggio”, “sostegno”: il termine condivide la stessa etimologia di “assiso”, a rappresentare il ruolo regale che la mente deve recuperare, posizionandosi sul suo trono da cui può osservare e gestire la sua “creatura”, ovvero il corpo.

Gli elementi fondamentali dell’Asana

Lo “Hatha Yoga Pradipika” afferma che:

Non può esistere Asana senza Dharana e Pranayama”.

In effetti nelle posizioni dello Yoga il corpo ha principalmente un ruolo di sostegno, in quanto esso costituisce il campo d’azione in cui Ha e Tha, la Mente e il Prana, possono avere una manifestazione concreta. L’Asana, quindi, è molto più di una semplice forma in cui “incastrare” il corpo: una posizione esterna rappresenta soltanto una cornice, che resterebbe vuota se fosse priva degli altri due elementi fondamentali, Dharana e Pranayama.

Dharana

Ciò che contraddistingue lo Hatha Yoga è il ruolo di comando e di presenza costante della mente. Ci sono due modi principali di utilizzare la mente nell’Asana:

– il primo è l’osservazione, ovvero lo stabile mantenimento dell’attenzione della mente su un oggetto ben preciso;

– il secondo è l’attivazione: in questo caso, la mente viene sollecitata con qualche attività, per esempio un Kriya, un percorso di prana, una visualizzazione ecc.

In entrambi i casi la mente non viene indirizzata in maniera casuale, lasciandosi attrarre da elementi diversi: è invece fondamentale che l’attenzione resti focalizzata sull’elemento scelto.

Pranayama

Nell’antichità gli Asana non erano stati concepiti per far bene ad un organo o ad una parte del corpo, bensì per attivare determinate potenze dentro di sé.

Il Prana è l’elemento della Vita che si manifesta nel corpo sotto molteplici forme. Prana è infatti tutto ciò che pre-anima la Vita, la sostiene e la promuove, caratterizzando un corpo vivo rispetto a un cadavere.

Come si esprime la Vita nel corpo

La Vita trova molteplici espressioni dentro di noi. Ecco alcune di esse, che dovrebbero quindi essere elementi immancabili di ogni Asana ben fatto:

  • Il movimento: un movimento armonico e ritmato porta la Vita, mentre uno caotico può anche consumarla e distruggerla. La staticità dell’Asana, inoltre, fa emergere il movimento interno che anima la posizione, ovvero la mobilità data dal respiro e la folgorante mobilità della mente. L’immobilità dell’Asana non è un bloccarsi e un irrigidirsi in una forma statica, bensì è la risultante della sospensione di un movimento perfetto: tutto il corpo resta mobile, pronto a riprendere in qualsiasi momento il movimento, così come la mente resta vigile e non si disperde.
  • Il ritmo promuove la ciclicità ed il continuo perpetuarsi della Vita: pensiamo al ritmo del respiro, al battito del cuore, all’alternanza di sonno e veglia, notte e giorno, ai cicli stagionali ecc. Ogni movimento prepara e induce il seguente, dando origine ad un continuum infinito.
  • Il calore, l’attivazione metabolica: ogni azione mentale effettuata, sia negli Asana che nelle meditazioni dell’Hatha Yoga, deve avere un effettivo riscontro sul corpo fisico, promuovendo lo scaldarsi e l’attivarsi del corpo stesso.
  • Il piacere: la Vita si crea attraverso il piacere: al contrario, il dolore distrugge la Vita, tanto nel quotidiano come negli Asana. Nello Yoga si ricerca pertanto la percezione del corpo attraverso il piacere. La propriocezione piacevole può essere stimolata, ad esempio, da un corretto stiramento che venga realizzato secondo la giusta misura: una stimolazione eccessiva produce disagio o addirittura dolore, mentre una stimolazione troppo blanda rende più difficoltoso il mantenimento della focalizzazione sul corpo.
  • La fluidità e la flessibilità, a livello mentale prima ancora che fisico. Ciò che si irrigidisce tende a degenerare e deperire.
  • Il Tapas, l’Ardore, l’eccitazione interna è uno dei principali elementi che favoriscono l’attivazione di Prana, a patto che l’elemento di eccitazione provenga dall’interno e non da qualcosa che non ci appartiene, altrimenti ne saremmo attratti e di conseguenza presi e schiavizzati, diventando passivi. Nello Yoga, invece, l’obiettivo è la completa liberazione.

Gli Asana, quindi, dovrebbero stimolare e migliorare l’attività vitale dell’individuo su tutti i piani: fisico, psichico ed emozionale.

Lo stato di Purna, ovvero la completezza, può essere conseguito tramite una corretta interazione con la Vita nel corpo, o comunque attraverso l’osservazione della presenza della Vita nel corpo.

Shakti

Il Prana ci caratterizza a livello individuale, ma ciascuno di noi non è isolato rispetto alla Potenza universale di cui facciamo parte e della quale rappresentiamo ognuno una piccola cellula. La Shakti, questa Potenza cosmica, è assimilabile alla forza della Natura, una potenza più grande di noi che ci alimenta e ci tiene in vita. All’interno degli Asana possiamo percepire la connessione con questa Potenza, con la quale siamo costantemente in contatto anche attraverso il semplice atto di respirare. Possiamo andare anche oltre la semplice percezione, imparando ad interagire con la Shakti e utilizzando Kriya e percorsi pranici per attingere a quella Potenza cosmica, per farla calare in noi, identificandoci in essa ed acquisendone i poteri.

Quando si impara a gestire intenzionalmente la Pranashakti, l’Hatha Yoga diventa veramente una pratica superiore, perché ci permette di realizzare pienamente le nostre potenzialità, e ci rende individui completi e fondati su noi stessi.

GLI KSHETRAM E LA PRATICA DELL’HATHA YOGA

di ANTONELLA FILIPPONE

La parola KHESTRA significa “campo, sfera di attività”, ma anche “corpo” inteso come campo di esperienza o di azione (Glossario di Sanscrito, Mother Sai Publications). Lo KHESTRAM, nell’ambito letterario e filosofico, è la vasta distesa di terra (una pianura vicina a Hastināpura, l’attuale New Delhi), scenario di battaglia dei Kuru, cioè degli eserciti comandati dai Pāndava e dai Kaurana, di cui si narra nel poema epico del Mahābhārata. Questo termine, quindi, ha a che fare con una dimensione materiale, visibile, identificabile, che possiamo conoscere e su cui possiamo agire. Nell’iconografia tradizionale, lo khestram ha la forma di un quadrato, come una scacchiera, suddivisibile al suo interno in altrettanti piccoli riquadri già determinati. Gli uomini, appartenenti ai quattro varna (colori, caste sociali) si dispongono nelle caselle della scacchiera, a seconda dell’ampiezza dei propri orizzonti e dei propri ruoli. Così, il filosofo (brahmano) si potrà muovere in un quadrato composto da 81 caselle; il guerriero (kshatriya) si muoverà in una scacchiera di 64 riquadri; il mercante (vashya) ne avrà a disposizione 49; il servo (shudra) rimarrà confinato nel suo unico piccolo quadrato.

brahamano kshatriya vashya shudra
comprensione maggiore della Realtà

Ognuno vivrà nella propria forma, spesso senza scoprire gli altri spazi a disposizione, anche all’interno della sua stessa scacchiera, fino a quando non riuscirà a praticare lo yoga della potenza che lo libererà dalle sue prigioni e dai suoi ostacoli. Fra le abilità sviluppate dallo hatha yoga, vi è senza dubbio quella della consapevolezza, dell’attenzione (jagrat) che portano a moltiplicare i nostri spazi, cioè a percepire tutta la scacchiera e ad abbandonare i condizionamenti che ci imprigionano nei vari ruoli.

Nella pratica dello yoga, seguendo questi principi, andiamo a fortificare e ad affinare una percezione più completa e profonda del nostro corpo (lo khestra), riuscendo a unire via via elementi ed aspetti prima sconosciuti, estendendo quindi le nostre potenzialità. Queste ci consentiranno di sentire e di considerare il corpo stesso come un’entità unica (il nostro quadrato del sole).

Eventualmente, dopo questa prima evoluzione, saremo pronti a superare lo stato materiale per scalare la Montagna Sacra (Monte Meru): incontreremo, nel percorso di presa di coscienza (e non più solo di consapevolezza, come attuato precedentemente) i 6 chakra che ci faranno illuminare dall’alto la condizione limitante in cui eravamo rinchiusi.

LA PRATICA

Gli khetram identificabili nel tronco sono cinque: ne presentiamo due che riguardano Manipura Khestram e Anahata Kshetram. Ovviamente queste pratiche saranno precedute da alcune fasi di preparazione e di purificazione respiratoria.

MANIPURA KSHETRAM (nella zona dell’ombelico e nella seconda lombare)

  • SETHUASANA (per favorire la forza del diaframma sulla mobilità lombare)
  1. Nella fase dinamica, inspirando portiamo in alto il bacino, utilizzando la spinta dei piedi; espirando, riportiamo la schiena a terra, appoggiando le vertebre una dopo l’altra.
  1. Nella fase statica, una volta che siamo riusciti a salire nella posizione con una respirazione adeguata, manteniamo sethuasana con l’aiuto delle mani sotto la zona lombare, percependo il movimento della respirazione sulla colonna vertebrale.
  • DHARMIKASANA (per favorire, fra l’altro, la consapevolezza dell’addome nella respirazione e l’allungamento della colonna)

Nella posizione (con le ginocchia divaricate), dovremmo percepire lo spazio dell’addome ampio e in movimento e come questo si possa riflettere anche sulla colonna. Nella fase di rientro, comminando indietro con le mani, cerchiamo di sentire come adesso il respiro porti una nuova linfa in questa zona del corpo.

ANAHATA KSHETRAM (al centro del petto e fra le scapole)

  • MARYCHIASANA (per favorire la mobilità della gabbia toracica e la consapevolezza del movimento respiratorio delle scapole e del dorso)

Nella fase statica (per esempio, nella variante con una gamba allungata) è importante la posizione delle braccia che allargano la zona posteriore della schiena, nel dorso: lì dovremmo portare la nostra attenzione, osservando il movimento respiratorio del torace.

VRITTI ARDHA BHUJANGASANA (per distendere la colonna, sciogliere le anche e le spalle, percepire la mobilità respiratoria del torace)

  1. Nella prima variante, l’inspirazione, aprendo il torace, porta il braccio in apertura. Nell’espirazione, avremo cura di non lasciare questa sensazione, riportando la mano a terra.
  1. Nella seconda variante (in cui le mani si intrecciano dietro la schiena) cerchiamo di focalizzare la nostra attenzione sempre sul torace che si apre naturalmente.

Quando lasceremo la posizione, sedendoci in Vajrasana, andremo a sentire come tutta l’area anteriore e posteriore del torace si sia rivitalizzata e come il respiro vi fluisca naturalmente e profondamente.

Paschimottasana: lo stiramento dell’Ovest

Di Laura Bonimini

Nell’annualità di Asana abbiamo l’opportunità di comprendere e sperimentare, attraverso la realizzazione di movimenti e posizioni, la collaborazione delle strutture articolari e muscolari del nostro corpo.

Capire ed interiorizzare pian piano la corretta dinamica e preparazione delle flessioni in avanti, mi ha riservato una piacevolissima sorpresa, visto che era da tempo che mi rifiutavo di eseguire posizioni come Pashimottanasana.

Le flessioni in avanti e la coordinazione fra le Catene posturali

Le catene posturali

La nostra struttura posturale, ossia l’insieme delle articolazioni e dei muscoli preposti alla realizzazione della staticità e soprattutto del movimento, è composta da cinque famiglie muscolari, chiamate anche catene. Una catena è un insieme di muscoli collegati tra loro da una specifica finalità funzionale. Una buona coordinazione tra le varie catene muscolari si traduce in un buon equilibrio posturale e nella facilità ed economicità del movimento.

Un gruppo di muscoli in tensione esercita un’influenza su gli altri muscoli vicini, sia per un fattore fisico-fasciale che per un fattore nervoso (i neuroni eccitati eccitano quelli vicini).

Esistono principalmente cinque famiglie muscolari che il corpo utilizza per esprimersi; di queste cinque, tre riguardano il nostro rapporto con la verticalità e due la nostra relazione col mondo esterno.

Dal punto di vista meccanico:

  • due delle tre catene della verticalità ci permettono di effettuare movimenti sul piano sagittale: flessione in avanti (catena anteriore mediana) e raddrizzamento (catena posteriore mediana);
  • due catene relazionali (catena anterolaterale e catena posterolaterale) ci permettono di esprimerci attraverso la gestualità e di rapportarci al mondo esterno tramite le estensioni delle braccia-mani e delle gambe-piedi;
  • la terza delle tre catene della verticalità è detta anche catena del ritmo, ed è considerata il “direttore d’orchestra” delle altre quattro catene, quella che coordina sapientemente il lavoro di tutte e quante. I muscoli che ne fanno parte sono profondi ed hanno la funzione di vincere la gravità, per elevarci, intervenendo nella fisiologia respiratoria.

Dal punto di vista psichico le tre catene della verticalità evidenziano il nostro potenziale interiore la nostra natura più profonda, in sostanza come noi ci rapportiamo con noi stessi; le due catene relazionali ci permettono di espanderci e di richiuderci in rapporto al mondo esterno attraverso la comunicazione.

Nello Yoga impariamo a muoverci in modo consapevole, venendo anche a conoscenza delle dinamiche che governano la nostra gestualità e degli schemi di movimento corretti.

Un buon insegnante deve sempre ricordare agli allievi che è l’asana al loro servizio e che lo stato di Yoga si realizza quando raggiungiamo una posizione in una condizione di confort e siamo in grado di mantenerla senza sforzo, affinchè il respiro possa esprimersi e la concentrazione della mente mantenersi costante.

“Non esiste Asana senza Pranayama e senza Dharana”.

Le flessioni in avanti – Le catene maggiormente coinvolte

La catena anteriore mediana rappresenta l’Archetipo della Madre, la terra e il suo significato di accoglienza, stabilità e sicurezza. Le potenzialità della catena anteriore sono insite dentro di noi, in posizione fetale siamo ripiegati in avanti. Ci arrotoliamo su noi stessi naturalmente quando siamo stanchi, quando vogliamo stare in contatto con noi stessi, con la vita vegetativa, con il mondo delle nostre sensazioni.

I punti fulcro di questa catena sono rappresentati dal perineo, dal retto dell’addome, dallo sterno; mentre le estremità della catena riguardano tutta la struttura del fondo della bocca, della gola (diaframma faringeo ) e dell’alluce (in particolare l’abduttore dell’alluce).

La catena posteriore mediana porta verso l’azione: un’immagine esemplificativa è quella del bimbo che si raddrizza per imparare ad alzarsi da terra e iniziare a camminare.

Come esseri umani anche questa potenzialità dell’azione fa parte di noi e della nostra evoluzione e ci permette di realizzarci nella vita, di andare avanti nonostante le difficoltà.

Il punto fulcro della catena è lo spazio del torace, lo spazio con cui ci rapportiamo al mondo. Il punto di attivazione di questa catena è la zona sacrolombare, composta dalle strutture muscolari preposte al raddrizzamento del bacino sulle gambe e sui piedi.

Le estremità di questa catena sono la fronte e i talloni.

La collaborazione fra le due catene coinvolte nella flessione in avanti

Molto spesso l’approccio alla posizione di Pashimottanasana o Uttanasana avviene attraverso la forzatura dell’allungamento della catena posteriore mediante il “tiraggio” eccessivo delle mani che si aggrappano alle caviglie o ai piedi e trascinano volontariamente tutto il tronco in avanti.

Paschimottasana

In particolare la flessione in avanti nasce dall’attivazione della catena anteriore (agonista): di conseguenza si attiverà il rilascio della catena posteriore (antagonista); è quindi essenziale realizzare la collaborazione fra le due.

La preparazione della flessione in avanti

Le azioni sulla catena posteromediana

Un principio fondamentale nella realizzazione di Paschimottanasana è il rispetto di quei punti del nostro corpo che hanno poco potenziale di allungamento:

  • i muscoli della parte posteriore delle gambe, i cosiddetti semimembranosi – semitendinosi, non devono mai essere forzati. Questa muscolatura ha il particolare ruolo di stabilizzare la massa del bacino sui femori per evitare che questo cada in avanti, ed è quindi poco incline all’estensione;
  • la zona lombare, la parte meno mobile della nostra colonna, che riveste il ruolo di principale stabilizzatore della verticalità, è dotata di una rete di muscoli e di legamenti importanti preposti al mantenimento dell’equilibrio del tronco sull’asse verticale e alla distribuzione delle forze verso i distretti periferici inferiori (le gambe). L’unico stiramento benefico che interviene su questa zona è quello provocato dalla respirazione: in particolare durante la discesa del diaframma all’inspiro, quando si attua una delordosi naturale delle vertebre lombari soggette al tiraggio dei pilastri dello stesso e alla pressione interna degli organi.

Da quanto appena esposto si evince che il margine di estensione si potrà ottenere rilasciando altre parti del nostro corpo, come ad esempio le estremità della catena posteriore: sotto le dita dei piedi fino alla zona del tallone – caviglia e dalla fronte fino a tutto il connettivale del cranio.

Sarà altresì importante agire sulla flessibilità delle anche, nonché sulla rieducazione del corretto schema di movimento. Per salvaguardare la salute della colonna è utile allenarsi a ruotare sulla cintura delle anche inclinando in avanti il bacino e a seguire il tronco e la testa che devono rimanere in asse. Infine l’allentamento di contrazioni sulla zona del dorso renderà più disponibile la muscolatura posteriore a concedere al tronco la flessione in avanti.

Le azioni sulla catena anteromediana

La tonificazione dell’addome e dei muscoli pelvici, compresa la tonificazione del perineo sarà essenziale per provocare un ulteriore rilascio della catena posteriore.

In particolare per agire sulla muscolatura profonda della colonna, le torsioni (adattate naturalmente alla nostra fisiologia) sono senz’altro benefiche se accompagnate dalla corretta dinamica respiratoria.

Irrobustire la parete addominale dei trasversi addominali fa sì che per via riflessa, durante il piegamento in avanti, avvenga un naturale allungamento dei muscoli posteriori senza dover intervenire con trazioni forzate.

Pashimottanasana nasce quindi spontanea da un’azione della catena anteriore e dalla giusta collaborazione della catena posteriore: in questo modo, vi sarà rispetto del corpo e non si scatenerà la naturale reattività di una muscolatura troppo tesa e contratta; al contrario, finalmente, potremo percepire il suo abbandono incondizionato alla forza di gravità.

Una volta immobili nella posizione il ritmo del respiro creerà un lieve ondeggiare dal quale sarà piacevole farsi trasportare.

In questo asana apprezzeremo quel naturale ripiegamento in avanti ricordo del nostro periodo prenatale in cui, cullati nel liquido amniotico, ci sentivamo protetti ed amati.

Conclusioni

Ripiegarmi dolcemente su me stessa, nel modo corretto indicato da Francoise, ha avuto un’azione calmante sul mio sistema nervoso: di conseguenza, rilassando e tranquillizzando sia il corpo che la mente, ho ritrovato facilmente interiorità e raccoglimento.

Continuo a praticare Pashimottanasana seguendo queste indicazioni e pian piano sto vincendo le resistenze e le paure che nel tempo mi avevano ostacolato e fatto sì che etichettassi l’asana come pericoloso per la mia colonna quindi fuori dalla mia portata.