Yoga e Amore

«Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti.

[…]Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica.»

(di Francesca Bonsignori)

Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti. In particolare, nella visione tantrica è fondamentale quanto avviene nelle azioni concrete della quotidianità, dai pensieri, all’umore, alla salute. Armonizzare il rapporto con noi stessi e con il mondo nel vissuto di ogni giorno e ogni momento è quanto di meglio possiamo ottenere con lo yoga. Il livello del nostro benessere e felicità, quanto ci avviciniamo ad una condizione di armonia psicofisica, misura inequivocabilmente quanto conosciamo e sappiamo mettere in pratica lo yoga, ben oltre che nel fare soltanto degli esercizi su un tappetino.

Lascio da parte le forme ascetiche di yoga, fondate sulla mortificazione del corpo e della vitalità in favore di una vaga finalità spirituale che, ammesso che conducano realmente allo spirito, sono ben lontane dalla vita di gran parte di noi. Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica. 

Analizzando in profondità le cose, emerge come tutte le forme di yoga considerino centrale la capacità di interagire con il piano emotivo in tutte le sue manifestazioni. Le forme ascetiche, mirando ad un simile scopo, impiegano il silenziamento o addirittura la soppressione delle componenti emotive.

Nell’hatha yoga si parla di controllo: sono infatti le disarmonie emotive che ci inducono a comportamenti nocivi per la salute corporea e per l’equilibrio psichico.

Quando mangiamo male, scegliamo stili di vita impropri, ci soffermiamo su pensieri distonici, effettuiamo delle scelte come banalmente guardare programmi che ci destabilizzano, è sempre preceduta una compulsione avvenuta sul piano emotivo.

Talvolta mentre stiamo agendo una parte di noi sa di sbagliare ma non può fare a meno di persistere nell’azione come se fosse guidata da altro che da noi stessi.

Dal momento che l’amore è l’emozione più forte che caratterizza la vita di tutti, possiamo affermare che yoga è gestire la regina delle emozioni: l’amore. Si parla dunque di hatha yoga come lo yoga degli eroi, e penso non vi siano dubbi sul fatto che cimentarsi con una potenza così grande come quella dell’amore sia proprio una faccenda eroica e che dunque lo yoga ci renda degli eroi.

D’altra parte lo yoga è un cammino arduo, a partire dalla comprensione di noi stessi, che richiede di abbandonare schemi, valori, e modalità usuali di considerare le cose.

La forza dello yoga non ha nulla a che vedere con la forza muscolare proveniente dall’allenamento da palestra, parliamo di ben altro.

Questi principi comprendono ogni valenza che vogliamo dare alla parola amore, da un coinvolgimento passionale verso una persona, un’attività, un progetto, verso lo yoga stesso che appassiona molti di noi. Ma anche amore per noi stessi.

Per procedere nel processo di comprensione è necessario prima di tutto chiarire che controllare un’emozione non vuol dire escludere un piacere dalla nostra esistenza. Teniamo conto del detto ogni piacere dura poco, e aggiungerei che il più delle volte l’esperienza di un coinvolgimento è dalle stelle alle stalle, e le stalle sono tanto più opprimenti quanto più ci in alto siamo andati, e siamo stati vicini alle stelle. Tanto più elevato è il livello di coinvolgimento passivo, tanto più sgradevole sarà il risveglio.

Nella vita ordinaria non sospetteremmo che tutto ciò possa essere anche un processo attivo. Sapersi appassionare, innamorare, godere di quanto la vita ci offre per uno yogin è una pratica attiva, che non parte dal farsi attrarre magneticamente da un qualcosa che ci fa innamorare bensì da un’azione di innamoramento.

Naturalmente la prima situazione è quella usuale, direi la sola concepibile per molti. Tant’è che in inglese innamorarsi si traduce come to fall in love, letteralmente cadere innamorati. La condizione attiva è quella che non soltanto non ci fa pagare il conto pesante che il “cadere innamorati” ci presenta, ma è anche quella opportunità che ci può portare a godere pienamente l’esperienza immensa e totalmente appagante dell’amore.

Un principio analogo lo troviamo rispetto al piacere per il cibo, un aspetto centrale per la nostra vita, assolutamente importante da gustare con equilibrio. Mangiare non è solo nutrimento, ma è un’attività basilare che coinvolge il nostro insieme psicofisico, che è necessario appagare e coccolare pienamente. L’amore per il cibo è essenziale per la salute a 360°.

Per ottenere il massimo dell’appagamento è importante come si mangia e non solo cosa mangiare. Anche in questo caso essere attivi e presenti porta ad equilibrio ed appagamento, mentre i nostri avversari sono la compulsività verso il cibo, così come le regole ferree che ci costringono a restrizioni o regimi di varia natura, relegandoci a comportamenti alimentari che non gratificano e che non è detto siano del tutto salutari.

Tutte le religioni impongono regole alimentari, in quanto la via del controllo e dell’equilibrio è la più difficile, riservata agli yogin che non necessitano di regole.

Allo stesso modo vengono imposte regole riguardanti l’amore e la sessualità, intese come forze ancor più difficili da gestire. La loro gestione richiederebbe di controllare delle prorompenti parti emotive, operazione già difficile per uno yogin, impossibile al di fuori dello yoga.

Questo aspetto è particolarmente approfondito dal Tantra, molto conosciuto come termine, ma solitamente male interpretato. L’obiettivo del Tantra è rimanere lucidi ed evitare il coinvolgimento nell’atto sessuale, pertanto trattasi di uno stato psichico molto arduo da raggiungere. Riuscire a mantenersi al di sopra dell’emotivo è qualcosa da gestire molto prima dell’emissione del seme, e comunque non riguarda la parte fisiologica, che è naturale portare fino in fondo, tanto al maschile che al femminile, quanto lo stato emotivo e mentale.

In definitiva, l’amore in relazione allo yoga rientra nell’ambito del prânâyâmâ (gestione del pranâ), dove l’amore è una forma di pranâ ben più potente delle altre.

Arrivare a tanto equivale a trovare la chiave per vivere la propria vita in piena felicità, piacere, benessere.

Le modalità pratiche sono diverse. La prima, la più importante, è la comprensione di come stanno le cose.

Arco – Dhanurasana

La posizione dell’Arco è una posizione potente che agisce a livello fisico, pranico, mentale, spirituale e terapeutico. Inizialmente è sufficiente praticarla anche solo in fase dinamica per ottenerne incredibili benefici, ma il massimo si raggiunge quando la si padroneggia e si riesce a tenere senza sforzo anche per varie decine di minuti.

Azione a livello fisico

L’Arco agisce potentemente sugli organi addominali. Nella fase dinamica, si effettua un vero e proprio massaggio dell’addome che rivitalizza l’intera zona, riscaldandola e rilassandola.

Nella posizione statica finale si attua una forte compressione intra-addominale che “strizza” gli organi ivi contenuti come una spugna, espellendo il sangue venoso e rimandandolo verso il cuore. Questa azione non solo consente di eliminare il sangue oramai depauperato di ossigeno, ma anche di “sgonfiare” gli organi stessi, facendo ritrovare ad essi, la propria forma originale e contribuendo a diminuire od eliminare la ptosi.

Una volta rilasciata la posizione, quegli stessi organi si andranno a riempire di sangue arterioso fresco, che li rivitalizzerà.

Azione a livello pranico

Rimanendo nella posizione in fase statica e continuando a respirarvi profondamente, si andrà a stimolare l’afflusso pranico in quella zona, che tenderà immediatamente a riscaldarsi e vitalizzarsi.

Questo farà aumentare tapas, il fuoco pranico interno che potenzierà la quantità di vitalità (Virya) contenuta in noi, contribuendo a far divenire il soggetto sempre più forte, potente e carismatico, tale da suscitare in chi lo circonda, un senso di rispetto.

Quanto più il praticante rimarrà in fase statica, respirando profondamente, tanto più diverrà potente, cioè ricco e ridondante di Prana-Shakti, la Potenza Pranica cosmica.

Azione a livello mentale

La posizione dell’Arco contiene in sé l’archetipo del guerriero (Virat) e, dunque, contribuisce a sviluppare quella parte marziale della mente che chiamiamo la volontà (Iccha).

Lo stesso sforzo fisico deve essere sostenuto tramite una forte e ferma volontà mentale, senza la quale il praticante cederebbe molto prima di quanto potrebbe.

Azione a livello spirituale

Il personaggio centrale della Bagavad-Gîtâ è Arjiuna, l’Arciere, il prototipo dell’uomo che va realizzandosi. Di conseguenza questa posizione contiene l’Archetipo della realizzazione più elevata che si realizza quando la freccia (della mente) raggiunge il suo bersaglio (il cuore), realizzando l’intuizione superiore.

E questa posizione, nel mentre la attuiamo con l’intento rivolto a questo fine, contribuisce a farci realizzare la nostra natura più profonda.

Azione a livello terapeutico

Questa posizione fa aumentare considerevolmente Agni, il fuoco digestivo che permette: di metabolizzare Ama, le tossine accumulate nei vari organi e tessuti, di migliorare la capacità digestiva, di aumentare la resistenza e la reattività alle malattie e, non ultimo, di digerire ogni forma di stress e tensioni mentali ed emotive provenienti dall’esterno.

Per ottenere tutto questo, si richiede una pratica più intensa dell’ordinario, dell’ordine di almeno 15 minuti.

Tecnica

Posizione di Partenza:

Distesi sull’addome, fronte a terra, braccia lungo il corpo con il dorso a terra, gambe e piedi vicini.

Rilassarsi profondamente, poi portare l’attenzione sul respiro, equilibrandolo tra inspirazione ed espirazione. Ampliarlo progressivamente, sentendolo spingere nell’addome e nella pancia. Massaggiarsi i visceri e gli organi interni tramite questo respiro addominale. Aumentarne progressivamente l’intensità e la potenza, mantenendo comunque un respiro calmo e profondo, sino ad arrivare a traspirare. Identificarsi completamente con il respiro.

Fase dinamica:

A questo punto, flettere e sollevare le gambe, portandole verso la nuca, in modo da permettere alle mani di afferrare le caviglie.

Inspirando, tiriamo le gambe con le braccia, facendole sollevare (foto 2).

Effettuiamo tre respiri profondi, poi, trattenendo, iniziamo a dondolare il corpo in avanti ed indietro, effettuando un profondo massaggio dell’addome (foto 3-4). Torniamo in fase statica e, volendo, dopo aver effettuato tre respiri intensi, possiamo ripetere una o più volte il movimento.

Presa della Posizione:

Rimaniamo nella posizione, migliorandola ad ogni respiro, tirando progressivamente con le braccia ed allentando le articolazioni coxo-femorali (foto 5).

Respiriamo intensamente, aumentando progressivamente in una prima fase la sola inspirazione, ed in una seconda anche l’espirazione.

Introduciamo, poi, al termine dell’inspirazione, dei momenti di sospensione a pieno, che cureremo di intensificare progressivamente, sino a raggiungere il massimo delle nostre possibilità, compatibile con il mantenimento di una espirazione agiata. Durante questa fase andiamo a migliorare la nostra forza e la nostra potenza.

A questo punto, se ci è possibile, introduciamo al termine dell’espirazione anche dei momenti di sospensione a vuoto, durante i quali cercheremo di intensificare e migliorare la posizione.

Manteniamo la posizione per almeno 3 minuti, con l’obbiettivo di raggiungere nel tempo i 10-15 minuti. In ogni caso, non arriviamo mai a stancarci, cioè al punto da alterare significativamente il nostro respiro o il nostro battito cardiaco. Se ancora non siamo in grado di mantenere nemmeno i 3 minuti, allora, torniamo a terra ed effettuiamo l’esercizio una seconda o, se è il caso, una terza volta.

Ritorno dalla Posizione:

Torniamo lentamente verso terra, effettuando un’espirazione particolarmente lenta, che duri almeno due volte l’espirazione che abbiamo utilizzata nella posizione, meglio se ancora più lunga.

Ci distendiamo sull’addome (foto 6), nella posizione del Coccodrillo (Makarasana), portando i gomiti in avanti ed incrociando i polsi sotto la fronte, divaricando le gambe ed i piedi, con i malleoli interni che poggiano a terra.

Abbandoniamoci completamente alle sensazioni residue, lasciando che la nostra intelligenza del corpo “digerisca” quanto effettuato. Il respiro è spontaneo e leggero. La mente vigile è neutra e distaccata, in quanto tutto deve essere gestito dalla mente corporea.

Quando sentiamo di aver metabolizzato il tutto, effettuiamo una profonda ispirazione, tratteniamo a lungo a pieno, poi, effettuando un intenso sospiro, ci apriamo all’esterno, ritrovando la posizione seduta a gambe incrociate (Sukhasana) (foto 7).

Rimaniamo ad occhi aperti, gustando gli effetti residui che continuano a manifestarsi in noi, senza giudicare, né interpretare quanto sta avvenendo, ma, semplicemente, vivendo le sensazioni.

Roberto Laurenzi

Cobra – Bujangasana

Tecnica

Posizione di partenza:

Ci distendiamo proni, con le braccia lungo il corpo. Gambe unite, piedi uniti. Rilassiamo tutto il corpo, cercando di eliminare ogni tensione parassita. Abbandoniamoci completamente alla posizione, cercando di sentire la pesantezza del corpo, in modo da rilasciare l’intero apparato muscolare. Portiamo la nostra attenzione sulle zone ancora tese, in modo da neutralizzarle.

Portiamo ora la nostra attenzione sulle articolazioni, decontraendole. In particolar modo curiamo le articolazioni coxo-femorali e quelle del cingolo scapolare.

Percorriamo mentalmente più volte la nostra colonna, dal basso in alto e dall’alto in basso, cercando di percepire ogni vertebra, allentandone le tensioni muscolari, anche attraverso l’espiro.

Una volta ottenuto lo stato di rilasciamento ottimale, concentriamoci sulla respirazione, equilibrandola e rendendola spontanea e naturale.

Quando il flusso respiratorio si è stabilizzato, andiamo progressivamente ad aumentarlo, eventualmente utilizzando l’ujjayi.

Quindi facciamo scorrere mentalmente questo respiro potenziato lungo la colonna (cervicali comprese). Successivamente portiamolo alle articolazioni coxo-femorali.

Presa della posizione:

Portiamo i gomiti a terra, all’altezza delle spalle.

Inspirando, ci solleviamo da terra, inarcando la colonna, e solleviamo il tronco e la testa, senza arrivare al nostro massimo.

Espirando, torniamo lentamente a terra, con lo stesso tempo dell’inspirazione.

Effettuiamo più volte questo movimento dinamico.

Quindi stringiamo i gomiti, poggiandoli a terra sotto le spalle, e rimaniamo in fase statica, nella posizione della Sfinge.

Curiamo di inarcare il più possibile la colonna all’altezza delle scapole. Tiriamo indietro il mento, facendolo poggiare sulla gola, e cerchiamo di tirare indietro il più possibile il collo, cercando di portare il viso in posizione frontale (perché, tendenzialmente, tende a guardare verso il basso, in conseguenza di scarsa mobilità tra le scapole).

Respiriamo profondamente, cercando con ogni respiro di mobilizzare al meglio la colonna, soprattutto a livello scapolare e della settima cervicale. Allentiamo le tensioni nella parte anteriore del collo, liberando le clavicole.

Con una profonda e lenta espirazione, torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo le mani a terra, collocandole all’altezza delle spalle, effettuando più volte il medesimo movimento sopra descritto. In fase statica, respiriamo profondamente, inarcando sempre meglio la colonna ad ogni respiro. Quindi torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo, ora, le mani all’altezza delle costole fluttuani (se siamo molto sciolti, al’altezza della vita) e ripetiamo alcune volte la fase dinamica.

Dopo cinque o sei movimenti dinamici, raggiungiamo la fase statica, rimanendo nella posizione finale.

Facciamo scorrere più volte il respiro lungo la colonna, migliorando ogni volta la posizione.

Concentriamoci ora nel petto. Portiamoci il respiro, facendovelo espandere. Il respiro diviene sempre più intenso e ci porta ad espandere progressivamente il torace in avanti. Contemporaneamente andiamo ad allentare le tensioni intercostali ed il nostro torace diviene sempre più sciolto e mobile.

Portiamo, ora, la nostra attenzione respiratoria tra le scapole, inviandovi una sempre maggiore quantità di aria ad ogni respiro, inarcando sempre più questa zona.

Spostiamo, la nostra attenzione all’interno dello spazio tra le sopracciglia, e respiriamovi con sempre maggiore intensità, sino a raggiungere uno stato di euforia.

Abbandoniamo momentaneamente il respiro controllato, lasciandolo alla spontaneità conquistata, ed andiamo a controllare e rilasciare ogni tensione corporea, concentrandoci soprattutto: sui glutei, sugli sfinteri, sulle gambe, rilasciando al massimo ognuna di queste parti.

Pratica di potenza:

Torniamo, ora, a concentrarci sul respiro, amplificandolo progressivamente.

Raggiunto il massimo respiro equilibrato, immaginiamo che l’aria che entra in noi sia permeata di luce.

Seguiamone mentalmente il percorso lungo le narici, sino ai sinus frontali, dietro le sopracciglia, ed assorbiamo in questa zona questa Potenza Luminosa (Prakasha Shakti), sino a sentire che emettiamo luce dal Terzo Occhio.

A questo punto, continuando a percepire la luminosità tra le sopracciglia, conduciamo il respiro permeato di luce nei polmoni, riempiendoli anch’essi di Potenza Luminosa, sino a sentire che questa si espande al centro del petto, irradiandosi verso l’esterno.

Mantenendo anche questa seconda percezione, portiamo il respiro permeato di Potenza Luminosa lungo tutta la colonna, sino a che anch’essa sia interamente imbevuta ed irraggi luminosità.

Distacchiamoci dall’attenzione sul respiro, che continuerà spontaneamente, e concentriamoci sulle tre zone che stanno irradiando Potenza Luminosa, realizzando entro di noi l’espressione vivente di questa Potenza.

Stacchiamoci anche da questa attenzione, preparandoci ad abbandonare la posizione. Queste tre zone continueranno, comunque, ad irraggiare luminosità spontaneamente, ancora per parecchio tempo.

EFOA International

Uscita dalla posizione:

Solleviamo il mento, inarcando il capo all’indietro e, contemporaneamente, solleviamo le gambe alla verticale, flettendo le ginocchia, che rimangono saldamente a terra. Rimaniamo in questa posizione per alcune respirazioni. Poi riportiamo le gambe a terra, rilasciandole, e facciamo scendere la testa, lasciando che prenda la sua posizione naturale per la nostra conformazione strutturale.

Quindi, portiamo la nostra attenzione sulle mani e sulla forza con cui poggiano a terra. Sostenendoci adeguatamente, effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo e, espirando lungamente, torniamo a terra con estrema lentezza, abbandonandoci completamente.

Allunghiamo le braccia oltre la testa, fronte poggiata a terra, nella posizione della Prosternazione, e lasciamo andare alla pesantezza, abbandonando ogni tensione, ogni attenzione, ogni pensiero, lasciando che l’Intelligenza del Corpo metabolizzi quanto effettuato. Rimaniamo in questo stato di torpore, il tempo che riteniamo necessario.

Poi, lentamente, ci portiamo in posizione Seduta (Sukhasana).

Qui riviviamo le sensazioni residue, godendo del riverbero luminoso delle tre zone che ancora andrà manifestandosi.

Rimaniamo in questa condizione tutto il tempo che riteniamo gradevole, quindi effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo, e, tramite un profondo, intenso e liberatorio sospiro, ci apriamo all’esterno.

Roberto Laurenzi

Pranayama l’arte di far fare un asana al respiro: Il Samavṛtti Prāṇāyāma

Il termine sanscrito pranayama è composto da due parole: prana e ayama.

Prana significa “forza vitale” (da pra- “davanti, verso, promuovere” e na “respirare”; ayama significa “estensione”, “espansione”, “controllo”): quindi pranayama può essere tradotto letteralmente come “espansione della forza vitale”.

Nel pranayama, il corpo è utilizzato come supporto, ma non è la parte più significativa, in quanto è la mente che agisce ed attiva ciò che vogliamo realizzare. La mente per rapportarsi al corpo usa il veicolo del prana, attivandosi per immagini percettive.

Nell’Hatha yoga viene utilizzata un asana cioè una forma fuori dall’ordinario (non solo fisica, ma anche respiratoria), dove il ritmo respiratorio ordinario viene alterato, al fine di ottenere particolari stati fisici/mentali volontari. Quando la mente, usando il prana si convoglia verso il corpo, riesce a somatizzare ed assumere le forme desiderate. La parola somatizzazione non ha una valenza negativa: nella pratica yogica possiede un obiettivo positivo, cioè quello di imparare a gestire e a costruire delle forme volute in modo attivo. Si crea e si fortifica una potenza, quella interiore, basata su tre elementi: Jnana /conoscenza, iccha /volontà, shakti /potenza.

Ciascuno di questi tre elementi, se presi separatamente, non fanno raggiungere all’individuo lo scopo prefisso. L’obiettivo della persona nello yoga così come nella vita, è quello di esprimere appieno le sue potenzialità di vitalità di cui è donato dalla nascita.

Il pranayama si realizza attraverso dei ritmi particolari in quanto anche la vita è un ritmo.

Di solito una respirazione lenta, regolare o ritmata porta ad uno stato di calma e di relax; una respirazione rapida crea un effetto stimolante e rivitalizzante in tutte le parti del corpo, mentre il solo equilibrare il flusso del respiro nelle narici porta ad uno stato di equanimità.

Quando, inoltre, prendiamo coscienza degli aspetti del respiro e del prana siamo più consapevoli e sensibili.

Nelle diverse fasi del giorno, ognuno di noi può sentire la necessità di aumentare il proprio livello di forza vitale o il bisogno di staccare e creare uno stato rilassato, calmando i movimenti della la mente: con le tecniche di pranayama è possibile venire incontro a queste esigenze, scegliendone di volta in volta una specifica e adatta a quel particolare risultato che vogliamo ottenere. Ad esempio di mattina, dopo una nottata di riposo ci può essere la necessità di una carica per iniziare la giornata con maggior vitalità e serenità. Di pomeriggio, dopo aver dedicato svariate ore alle nostre attività di lavoro o studio, c’è il bisogno di portare uno stato d’armonia ed equilibrio in tutto il corpo. La sera si ha bisogno invece di calmare e rilassare mente e corpo.

Un’ottima tecnica per portare uno stato di armonia e vitalità è Samavṛtti Prāṇāyāma: Samavṛtti pranayama crea una grande sensazione di equanimità, in quanto il suo ritmo è quello che è in relazione all’elemento terra (Pritthvi) appartenente al Muladhara Chakra (mula, radice; adhara fondamenta). “Sama” significa “sempre uguale, bilanciato” e “Vṛtti” vortice, senza inizio e senza fine. La pratica calma la mente e rilassa il sistema nervoso, bilanciando la forza vitale.

La tradizione yogica divide il ciclo respiratorio in quattro fasi:

  • Inspirazione (puraka),
  • Espirazione (rechaka),
  • Ritenzione del respiro dopo l’inspirazione o ritenzione a pieno (antara kumbhaka),
  • Ritenzione del respiro dopo l’espirazione o ritenzione a vuoto (bahya kumbhaka)

Nella respirazione ordinaria, queste quattro fasi hanno normalmente durate differenti tra di loro.

Il ritmo di questa respirazione è 1.1.1.: ecco perché è usualmente chiamata la “tecnica del respiro quadrato”. Nella nostra mente possiamo immaginare effettivamente un quadrato. L’inspirazione sale lungo il lato sinistro del quadrato, durante la ritenzione interna la consapevolezza si muove lungo il lato superiore del quadrato; l’espirazione discende lungo il lato destro; durante la ritenzione esterna portiamo la consapevolezza lungo il lato inferiore del quadrato. Questa è una respirazione completa. Quindi sia le fasi di inspirazione che espirazione, sospensione a pieno e a vuoto, hanno la stessa durata. Insieme alle sospensioni è utile mettere in atto il “TrayaBandha”:

  • contrazione del perineo a fine espirazione e a fine inspirazione: Mula Bandha
  • chiusura della gola a fine espirazione e a fine inspirazione: Jalandhara Bandha
  • pressione verso l’interno dell’addome durante la sospensione sia a polmoni vuoti che a polmoni pieni: Uddiyana Bandha

Prima di eseguire questa tecnica (come qualsiasi altra) è utile effettuare una pratica corporea propedeutica per ottenere i massimi benefici, in quanto il corpo e la mente preparati sono più idonei a ricevere gli effetti del pranayama. Una particolare attenzione va alle narici, che devono essere purificate e, durante la pratica, devono essere controllate coscientemente permettendo all’aria di entrare nel corpo più facilmente.

E’ poi importante, concludere l’esercizio, riducendo progressivamente il ritmo adottato per non creare una frattura respiratoria. E’ lo stesso principio per cui usciamo da una forma corporea in modo graduale per non sentire disagio. Mentre il corpo ci avvisa che qualcosa non va con sensazione di dolore, il respiro non ha modo di farlo, ma sicuramente pagheremo le conseguenze di una uscita repentina “dall’asana respiratorio” con disagi a livello psichico.

Al termine della pratica si respira liberamente, ma sempre con calma e consapevolezza. Per qualche momento, è importante portare a livello percettivo i risultati ottenuti e soffermarsi a godere degli effetti che questa tecnica ha sviluppato in termini di armonia ed equilibrio sia a livello fisico, che a livello mentale. Respirare è un atto così naturale, così spontaneo che raramente le persone si rendono conto di quanto sia prezioso.

Prendere coscienza della respirazione, respirare in modo corretto e successivamente poter controllare tale atto, ci dona delle risorse vitali inimmaginabili che possiamo comprendere solo con l’esperienza diretta.

Paschimottasana: lo stiramento dell’Ovest

Di Laura Bonimini

Nell’annualità di Asana abbiamo l’opportunità di comprendere e sperimentare, attraverso la realizzazione di movimenti e posizioni, la collaborazione delle strutture articolari e muscolari del nostro corpo.

Capire ed interiorizzare pian piano la corretta dinamica e preparazione delle flessioni in avanti, mi ha riservato una piacevolissima sorpresa, visto che era da tempo che mi rifiutavo di eseguire posizioni come Pashimottanasana.

Le flessioni in avanti e la coordinazione fra le Catene posturali

Le catene posturali

La nostra struttura posturale, ossia l’insieme delle articolazioni e dei muscoli preposti alla realizzazione della staticità e soprattutto del movimento, è composta da cinque famiglie muscolari, chiamate anche catene. Una catena è un insieme di muscoli collegati tra loro da una specifica finalità funzionale. Una buona coordinazione tra le varie catene muscolari si traduce in un buon equilibrio posturale e nella facilità ed economicità del movimento.

Un gruppo di muscoli in tensione esercita un’influenza su gli altri muscoli vicini, sia per un fattore fisico-fasciale che per un fattore nervoso (i neuroni eccitati eccitano quelli vicini).

Esistono principalmente cinque famiglie muscolari che il corpo utilizza per esprimersi; di queste cinque, tre riguardano il nostro rapporto con la verticalità e due la nostra relazione col mondo esterno.

Dal punto di vista meccanico:

  • due delle tre catene della verticalità ci permettono di effettuare movimenti sul piano sagittale: flessione in avanti (catena anteriore mediana) e raddrizzamento (catena posteriore mediana);
  • due catene relazionali (catena anterolaterale e catena posterolaterale) ci permettono di esprimerci attraverso la gestualità e di rapportarci al mondo esterno tramite le estensioni delle braccia-mani e delle gambe-piedi;
  • la terza delle tre catene della verticalità è detta anche catena del ritmo, ed è considerata il “direttore d’orchestra” delle altre quattro catene, quella che coordina sapientemente il lavoro di tutte e quante. I muscoli che ne fanno parte sono profondi ed hanno la funzione di vincere la gravità, per elevarci, intervenendo nella fisiologia respiratoria.

Dal punto di vista psichico le tre catene della verticalità evidenziano il nostro potenziale interiore la nostra natura più profonda, in sostanza come noi ci rapportiamo con noi stessi; le due catene relazionali ci permettono di espanderci e di richiuderci in rapporto al mondo esterno attraverso la comunicazione.

Nello Yoga impariamo a muoverci in modo consapevole, venendo anche a conoscenza delle dinamiche che governano la nostra gestualità e degli schemi di movimento corretti.

Un buon insegnante deve sempre ricordare agli allievi che è l’asana al loro servizio e che lo stato di Yoga si realizza quando raggiungiamo una posizione in una condizione di confort e siamo in grado di mantenerla senza sforzo, affinchè il respiro possa esprimersi e la concentrazione della mente mantenersi costante.

“Non esiste Asana senza Pranayama e senza Dharana”.

Le flessioni in avanti – Le catene maggiormente coinvolte

La catena anteriore mediana rappresenta l’Archetipo della Madre, la terra e il suo significato di accoglienza, stabilità e sicurezza. Le potenzialità della catena anteriore sono insite dentro di noi, in posizione fetale siamo ripiegati in avanti. Ci arrotoliamo su noi stessi naturalmente quando siamo stanchi, quando vogliamo stare in contatto con noi stessi, con la vita vegetativa, con il mondo delle nostre sensazioni.

I punti fulcro di questa catena sono rappresentati dal perineo, dal retto dell’addome, dallo sterno; mentre le estremità della catena riguardano tutta la struttura del fondo della bocca, della gola (diaframma faringeo ) e dell’alluce (in particolare l’abduttore dell’alluce).

La catena posteriore mediana porta verso l’azione: un’immagine esemplificativa è quella del bimbo che si raddrizza per imparare ad alzarsi da terra e iniziare a camminare.

Come esseri umani anche questa potenzialità dell’azione fa parte di noi e della nostra evoluzione e ci permette di realizzarci nella vita, di andare avanti nonostante le difficoltà.

Il punto fulcro della catena è lo spazio del torace, lo spazio con cui ci rapportiamo al mondo. Il punto di attivazione di questa catena è la zona sacrolombare, composta dalle strutture muscolari preposte al raddrizzamento del bacino sulle gambe e sui piedi.

Le estremità di questa catena sono la fronte e i talloni.

La collaborazione fra le due catene coinvolte nella flessione in avanti

Molto spesso l’approccio alla posizione di Pashimottanasana o Uttanasana avviene attraverso la forzatura dell’allungamento della catena posteriore mediante il “tiraggio” eccessivo delle mani che si aggrappano alle caviglie o ai piedi e trascinano volontariamente tutto il tronco in avanti.

Paschimottasana

In particolare la flessione in avanti nasce dall’attivazione della catena anteriore (agonista): di conseguenza si attiverà il rilascio della catena posteriore (antagonista); è quindi essenziale realizzare la collaborazione fra le due.

La preparazione della flessione in avanti

Le azioni sulla catena posteromediana

Un principio fondamentale nella realizzazione di Paschimottanasana è il rispetto di quei punti del nostro corpo che hanno poco potenziale di allungamento:

  • i muscoli della parte posteriore delle gambe, i cosiddetti semimembranosi – semitendinosi, non devono mai essere forzati. Questa muscolatura ha il particolare ruolo di stabilizzare la massa del bacino sui femori per evitare che questo cada in avanti, ed è quindi poco incline all’estensione;
  • la zona lombare, la parte meno mobile della nostra colonna, che riveste il ruolo di principale stabilizzatore della verticalità, è dotata di una rete di muscoli e di legamenti importanti preposti al mantenimento dell’equilibrio del tronco sull’asse verticale e alla distribuzione delle forze verso i distretti periferici inferiori (le gambe). L’unico stiramento benefico che interviene su questa zona è quello provocato dalla respirazione: in particolare durante la discesa del diaframma all’inspiro, quando si attua una delordosi naturale delle vertebre lombari soggette al tiraggio dei pilastri dello stesso e alla pressione interna degli organi.

Da quanto appena esposto si evince che il margine di estensione si potrà ottenere rilasciando altre parti del nostro corpo, come ad esempio le estremità della catena posteriore: sotto le dita dei piedi fino alla zona del tallone – caviglia e dalla fronte fino a tutto il connettivale del cranio.

Sarà altresì importante agire sulla flessibilità delle anche, nonché sulla rieducazione del corretto schema di movimento. Per salvaguardare la salute della colonna è utile allenarsi a ruotare sulla cintura delle anche inclinando in avanti il bacino e a seguire il tronco e la testa che devono rimanere in asse. Infine l’allentamento di contrazioni sulla zona del dorso renderà più disponibile la muscolatura posteriore a concedere al tronco la flessione in avanti.

Le azioni sulla catena anteromediana

La tonificazione dell’addome e dei muscoli pelvici, compresa la tonificazione del perineo sarà essenziale per provocare un ulteriore rilascio della catena posteriore.

In particolare per agire sulla muscolatura profonda della colonna, le torsioni (adattate naturalmente alla nostra fisiologia) sono senz’altro benefiche se accompagnate dalla corretta dinamica respiratoria.

Irrobustire la parete addominale dei trasversi addominali fa sì che per via riflessa, durante il piegamento in avanti, avvenga un naturale allungamento dei muscoli posteriori senza dover intervenire con trazioni forzate.

Pashimottanasana nasce quindi spontanea da un’azione della catena anteriore e dalla giusta collaborazione della catena posteriore: in questo modo, vi sarà rispetto del corpo e non si scatenerà la naturale reattività di una muscolatura troppo tesa e contratta; al contrario, finalmente, potremo percepire il suo abbandono incondizionato alla forza di gravità.

Una volta immobili nella posizione il ritmo del respiro creerà un lieve ondeggiare dal quale sarà piacevole farsi trasportare.

In questo asana apprezzeremo quel naturale ripiegamento in avanti ricordo del nostro periodo prenatale in cui, cullati nel liquido amniotico, ci sentivamo protetti ed amati.

Conclusioni

Ripiegarmi dolcemente su me stessa, nel modo corretto indicato da Francoise, ha avuto un’azione calmante sul mio sistema nervoso: di conseguenza, rilassando e tranquillizzando sia il corpo che la mente, ho ritrovato facilmente interiorità e raccoglimento.

Continuo a praticare Pashimottanasana seguendo queste indicazioni e pian piano sto vincendo le resistenze e le paure che nel tempo mi avevano ostacolato e fatto sì che etichettassi l’asana come pericoloso per la mia colonna quindi fuori dalla mia portata.

Le flessioni in avanti

di Dania Bicchierai

Una gestualità naturale

I movimenti che compiamo nella vita quotidiana si realizzano quasi esclusivamente in avanti; proprio per questo motivo è estremamente importante utilizzare uno schema corretto di questo tipo di mobilità. Quando ci spostiamo, nel camminare o correre, o muoviamo le mani per afferrare un oggetto, lo facciamo prevalentemente nello spazio davanti al corpo.

La flessione in avanti, inoltre, corrisponde ad una forma estremamente naturale per il corpo, in quanto costituisce la posizione mantenuta dal feto durante tutta la permanenza nel grembo materno. È anche la posizione che assumiamo naturalmente addormentandoci da seduti, quando il corpo si ripiega spontaneamente su sé stesso.

Aspetti fisici:

Sinergia delle catene

Nella nostra gestualità vengono attivate tutte le catene posturali, ma in ogni specifico atteggiamento una di esse risulta maggiormente coinvolta. Spesso la catena anteriore e quella posteriore vengono considerate “antagoniste”; in realtà la scioltezza del movimento deriva proprio dalla loro azione sinergica. Le due catene devono funzionare in perfetta complementarietà, cosicché all’attivazione di una corrisponda un rilasciamento dell’altra.

Nello specifico, le flessioni in avanti si realizzano attraverso un’attivazione della struttura anteriore, contestualmente al rilasciamento di quella posteriore. Flettendosi in avanti la struttura posteriore, ordinariamente utilizzata per raddrizzarci e mantenere la verticalità, dev’essere in grado di rilasciarsi per agevolare il piegamento.

Nel mantenimento dell’asana è opportuno focalizzare l’attenzione soprattutto sul nostro spazio anteriore, che viene attivato per potenziare il senso dell’appoggio e della chiusura che caratterizzano i piegamenti in avanti.

Uso di anche e bacino

Per non sovraccaricare la colonna vertebrale è fondamentale realizzare i piegamenti in avanti a partire dalle anche e dal bacino. Le anche costituiscono infatti il perno che collega il tronco alle gambe, articolando il femore sul bacino. L’allungamento posteriore deve sempre essere realizzato a partire dalla anche, in modo da evitare che si manifesti la retropulsione delle ginocchia; è importante, quindi, fare attenzione a preservare la naturale lordosi delle gambe.

Uso dei piedi

La mobilità delle anche, a sua volta, è favorita da un corretto utilizzo di piedi e caviglie. In particolare, un fulcro fondamentale per l’allungamento posteriore è costituito proprio dallo scivolamento in avanti dei talloni (da non confondersi col portare i piedi a martello, che provoca invece un raccorciamento).

Il respiro sulla colonna

Se non riesce a respirare, la colonna può essere rigida e “paralizzata” anche se esteriormente appare molto flessa. La vera scioltezza è data dalla capacità di preservare la corretta vitalità della spina dorsale, grazie al realizzarsi del suo naturale ondeggiare dato dal respiro in qualunque posizione ci si trovi.

I dischi intervertebrali sono alimentati per osmosi dalla circolazione linfatica grazie al movimento del diaframma, che con l’inspiro determina una decompressione e un allungamento della colonna, e con l’espiro la riporta in una posizione neutra, che corrisponde ad una lieve naturale compressione dei dischi. Questo meccanismo di pompaggio consente il metabolismo del disco, determinato dall’azione ritmata di assorbimento ed eliminazione, promuovendo la salute dei dischi e la vitalità della colonna.

Proponiamo asana in avanti non per arrivare a piegarsi sempre di più, ma per imparare a far respirare la colonna in posizioni sempre più complesse (per es. Halasana).

Aspetto respiratorio:

Nelle flessioni in avanti la fase respiratoria fondamentale è l’espiro.

L’attivazione e la contrazione dello spazio anteriore del corpo (per esempio in Pashimottanasana) ci permette di arrotolarci maggiormente in avanti, attivando ulteriormente la chiusura ed evidenziando l’aspetto “terra” della posizione. Inoltre, l’espirazione è naturalmente favorita dalla Gravità, cosicché basta abbandonarvisi perché possa avvenire spontaneamente, senza alcuno sforzo. Nello Yoga, rispetto al modo di respirare ordinario, l’espiro viene reso attivo e potente, in modo che venga concentrata al centro dell’addome la forza che poi scaturirà in un inspiro ampio e nutriente.

Aspetti psichici:

Mettere il corpo in una determinata forma ha anche ben precisi effetti interiori: non si tratta, dunque, soltanto di flettere il corpo, ma di indurre una specifica dimensione psichica. A livello mentale, anche inconscio, “andare avanti” ha un’accezione positiva, correlata con l’assecondare il flusso della vita ed esserne parte.

La gravità e l’elemento Terra

Le posizioni in avanti potenziano il nostro senso dell’appoggio e la capacità di relazionarci con la Terra, con tutto il suo significato simbolico. Le posizioni di flessione, infatti, portano tendenzialmente verso terra, mentre se dobbiamo metterci in azione è necessario svincolarsi dalla gravità per poter vivere la verticalità. Viene attivato un tipo di Prana che corrisponde al soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali legati alla sopravvivenza: il nutrimento, il sentirsi accolti e sostenuti, la capacità di abbandonarsi per poter dormire e rigenerarsi. Questi elementi sono imprescindibili per accumulare il potenziale che ci possa permettere poi, eventualmente, di attivarci e svincolarci dalla Gravità e dalla Natura, come avviene ad esempio nelle flessioni indietro.

Chiusura e interiorizzazione

Le posizioni di flessione in avanti vengono associate alla chiusura: la forma che diamo al corpo corrisponde ad un ben preciso atteggiamento interiore, che in questo caso sarà di interiorizzazione. Ripiegarsi e avvolgersi su sé stessi porta a rientrare nel proprio spazio, dove ci possiamo sentire al sicuro, in un atteggiamento di riflessione e raccoglimento.

Rilasciamento

Le posizioni in avanti generano un tipo di prana che nella vita ordinaria corrisponde a quello necessario per abbandonarci e lasciarci andare. Se non siamo in grado di abbandonarci non possiamo dormire, e il sonno rappresenta uno dei nutrimenti fondamentali per la vita. Nel quotidiano, dunque, questa tipologia di prana corrisponde ad atteggiamento di tipo passivo, che nello Yoga diventa una forma attiva di rilasciamento, in cui la mente non abbandona il corpo, ma resta vigile.

INDIVIDUAZIONE E CAPACITA’ DI STARE DA SOLI NONOSTANTE LA MASSA

di Paola Cosolo Marangon

La necessità di individuazione è una necessità naturale; infatti la inibizione dell’individuazione da parte di un preponderante o esclusivo adeguamento ai principi della collettività significa una compromissione dell’attività vitale individuale “

C.G.Jung, Tipi psicologici, Newton Compton editori, Roma, 1993, pag361

Jung pone una questione essenziale nella maturazione della consapevolezza di sé, c’è una necessità di individuazione che risulta sempre più difficile anche se assolutamente necessaria. Non essere consapevoli di un proprio sé, non sapere stare dentro la propria pelle e la propria storia, spesso cercando di fuggire per aderire a mondi diversi e “altri”, è una componente sociale e umana ricorrente negli ultimi anni.

Come ci sollecita lo psicanalista, però, questa individuazione è fondamentale e il percorso, la pratica yoga, può aiutare a raggiungere questo stato i consapevolezza del sé.

PINO O ABETE?

La metafora che ci è stata proposta del pino, come albero che sa bastare a se stesso, fa il suo effetto: si tratta di un albero imponente che tende verso il cielo e non ha paura della solitudine. L’edera non lo attacca perché i suoi aghi sono acidi e il terreno attorno diventa impossibile per la vita di qualsiasi altra pianta.

A dirla tutta io amo di più gli abeti, che tutto sommato sanno stare da soli e non vengono infestati, ma che sono anche più capaci di stare in gruppo, di condividere uno spazio, intrecciando le loro radici per sostenersi a vicenda. L’abete è più comunitario, il pino un po’ più narcisista. E poi gli abeti appartengono a tradizioni nordiche più affini al mio essere. Ma questa è un’altra storia.

Alberi e preferenze a parte, l’archetipo del pino richiama 3 punti fondamentali del saper/poter costruire il proprio posto nel mondo.

Nel momento in cui si riesce a trovare il proprio radicamento, il fulcro del proprio essere e la capacità di scegliere/orientare i propri pensieri, penso si possa dire di essere molto vicini alla realizzazione di un obiettivo fondamentale: essere sé stessi.

CONSAPEVOLI DEL PROPRIO STARE AL MONDO

Essere sé stessi, consapevoli del proprio saper stare al mondo, senza cedere all’impulso di seguire la marea come un gruppo di pesciolini trascinati dalla corrente, è una bella sfida.

Il respiro ci rende consapevoli di un corpo che trova il suo radicamento, per essere sempre presenti nel qui e ora, capaci di affrontare tutto ciò che la vita ci pone davanti.

La Shakti è quella potenza/forza che rende capaci di stare nella vita a testa alta, sapendo gestire la propria emotività, senza paura di incappare in percorsi tortuosi.

Nella pratica, dovremmo indirizzarci verso la possibilità di trovare 3 punti base su cui orientare la mente per attivare il prana. Come abbiamo visto nella proposta legata al pino, orientare il respiro e l’intenzione dell’asana verso la base, con il radicamento del bacino, con l’appoggio fondante a terra, è un punto di partenza che non deve appartenere solo al tempo che spendiamo nel tappetino.

Se riesco a considerare sempre il mio radicamento, la mia appartenenza alla terra che mi sostiene, e sulla quale so di poter contare, difficilmente avverrà un’individuazione certa: è necessario, piuttosto, un processo conscio di differenziazione, è necessaria appunto l’individuazione.

Il sostegno della terra è la prima parte per questo percorso che può farci dire “io ci sono, sono forte, credo in me stessa”.

Il secondo punto saliente è la creazione del kanda dell’addome: anche qui abbiamo la necessità di sentire che c’è un vuoto e un pieno, un fulcro centrale che ha la facoltà di farci sentire centrati. Riconoscere il centro del proprio essere è sapere di poter stare dentro un equilibrio che non è virtuale ma reale: protagonista è il respiro portato giù fino al perineo e poi fatto concentrare all’interno dell’addome, dove si riscontra un calore che nasce da dentro, fornisce forza e potenza. Una forma di Shakti che va a confermare un radicamento e un desiderio di sostenere un IO in maniera profonda.

L’ ultimo passaggio è salire per confermare la capacità di stare dentro un mondo dei pensieri, espandere il torace, perfezionare l’apertura del costato e consentire al corpo di rispondere alla possibilità di ampliare i propri orizzonti.

TRE SPAZI VUOTI

A quel punto la proposta della pratica è generare tre spazi vuoti. Senza il pieno non si può assaporare e concepire il vuoto. Senza essere passati per la consapevolezza di un pieno non si può creare il vuoto.

Dopo aver sperimentato il pieno arriva il momento per una consapevolezza mentale, una centratura che si allinea fino a ritrovare, grazie all’archetipo del pino, il sottile significato di un asse. Tale asse aiuta a stare dentro una sintonia globale, a sviluppare Merudanda, in cui riconosciamo la saldezza e la profondità, la centratura e la sicurezza. L’archetipo del pino, nella pratica dello yoga, può condurre a percepirci individui, riconoscendoci diversi ma connessi con i propri bisogni e con la propria umanità; questa pratica dà la capacità di nutrire psichicamente la vita stessa, sentendoci parte di un Tutto che trova il suo significato nel riconoscimento della Pace e dell’armonia.

CHE COSA VUOL DIRE “FARE” UN ĀSANA*?

di Antonella Filippone

Una breve introduzione al significato linguistico della parola ĀSANA: la radice verbale di questo termine sanscrito è ĀS-: i significati, legati a questo prefisso, sono molteplici. ĀS- vuol dire raggiungere, ottenere, godere, gustare, ma anche stare, risiedere, dimorare.

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IL RESPIRO, UNA PIACEVOLE SCOPERTA

di Angelica Tessitore

Da quando ho iniziato a frequentare la scuola EFOA, la cosa che più mi ha colpito sin dalla prima volta è stato realizzare quanto fosse fondamentale l’atto del respiro nello Yoga. Quanto ho appreso! e quanti esercizi eseguiti! Sono venuta a conoscenza di un nuovo mondo “del Respiro”.

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Il controllo della respirazione addominale

di Laura Roveri

Pranayama, alla scoperta della respirazione addominale

In questa seconda lezione di Pranayama abbiamo esplorato cosa significhi concretamente una respirazione addominale controllata.

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