Obiettivi e buoni propositi

(di Francesca Bonsignori)

Nel cammino verso un obiettivo si possono infatti presentare difficoltà e ostacoli di varia natura. Alcuni sono oggettivi mentre altri dovuti a fattori esterni, che non dipendono dal soggetto; altri, più insidiosi, prodotti dalla psiche, in particolare dalla componente emotiva (prāna), ancor più difficile da controllare. 

A questo punto entra in gioco l’intensità della determinazione di quanto l’obiettivo è stato posto come centrale e del saper gestire la nostra psiche, un aspetto centrale in tutte le forme di yoga.

L’importanza degli obiettivi

La scelta degli obiettivi rappresenta un elemento fondamentale per una buona qualità della vita poiché influisce quotidianamente sul nostro stato mentale, sull’umore e la vitalità oltreché sulla salute. 

Innanzitutto è bene avere degli obiettivi, perché maggiore è l’entusiasmo che ci spinge verso la loro realizzazione più elevata risulta l’attivazione vitale e psichica che coinvolge tutto il nostro essere il quale in assenza di obiettivi va a deprimersi. 

Il fenomeno depressivo risulta purtroppo evidente anche per le persone più giovani ed è correlato a uno squilibrio del sano svolgimento degli obiettivi quotidiani acuitosi durante il periodo pandemico. 

Ma l’obiettivo non è importante solo dal punto di vista psicologico, dal momento che coinvolge pienamente anche il piano fisiologico. 

Tutti noi siamo progettati per svegliarci la mattina e iniziare a muoverci, ad assumere atteggiamenti e gesti, a pensare a qualcosa da realizzare e ciò vale anche per attività semplici. In assenza di un qualcosa verso cui muoverci vivremmo per la gran parte del tempo in condizioni di inerzia e sedentarietà. 

In questo processo tutto l’organismo resta coinvolto e tanto più sono orientato e coinvolto nell’obiettivo più intenso è questo meccanismo virtuoso: soltanto in questo modo il sistema metabolico si può esprimere al meglio. 

Pertanto, prima ancora di entrare nello specifico della loro bontà, evviva gli obiettivi che attivano entusiasmo, giovinezza, espressione vitale. 

La qualità dell’obiettivo 

Dopo questa premessa, è utile pensare che l’obiettivo debba essere ben definito in ogni suo aspetto, compreso quello temporale; un buon obiettivo che si realizzi attraverso una serie di buoni propositi. 

È dunque opportuno domandarsi cosa si intenda per buon obiettivo in rapporto alla persona. La prima analisi andrà infatti costruita sulla specifica costituzione caratteriale e la qualità fisica e psichica oltreché l’età ed il vissuto; è importante comprendere tali fattori come unici e diversi per ciascuno. In più, la persona si trova a vivere un determinato contesto ambientale, sociale e familiare. La bontà dell’obiettivo deve tener conto della reale condizione della persona, onde evitare sogni irrealizzabili o percorsi di eccessiva salita. 

Su questo punto ci viene incontro l’antica scienza dell’Ayurveda, la quale sottolinea come la salute sia connessa alla realizzazione della propria natura e considera buono ogni obiettivo che rispetti questo elemento fondamentale. Tutto quanto concerne regole sociali, etiche e morali segue questo fondamento; seppur con qualche “correzione di tiro” opportuna alla società, il punto di partenza è individuale. 

L’adeguatezza dell’obiettivo 

Se l’obiettivo deve essere adeguato non può prescindere da un buon tempismo. 

La definizione di un obiettivo è svolta prima di metterlo a fuoco nel mirino e dedicarvi tutte le nostre attenzioni e forze. È noto quanto sia penalizzante fallire un obiettivo a cui si è dedicato tempo, forze, risorse, aspettative. 

Quest’ultime, le aspettative, sono un freno verso l’obiettivo. Esse salgono in intensità tanto più l’obiettivo non è corretto mentre si abbassano tanto più l’obiettivo è alla nostra portata. 

L’aspettativa è infatti un desiderio che rende i propositi poco concreti e sottrae forze alla parte operativa; essa distoglie l’attenzione della mente dall’operato e la conseguenza è la perdita della propria sana capacità di agire con vitalità. 

Il desiderio è tipico dell’età adulta e ci fa perdere la spontaneità che hanno i bambini. Questi ultimi quando si dedicano ad un’attività coinvolgono tutto il loro essere, con l’attenzione indirizzata solo quello a cui si dedicano nel preciso momento e hanno tutto il tempo a disposizione: in altre parole non hanno aspettative. 

La passione che mettiamo in quello che facciamo è la nostra alleata. L’atteggiamento ottimale è mettere passione senza apporvi desiderio. 

Lo yoga e i nostri obiettivi 

La chiarezza nel definire i nostri obiettivi, le strategie di realizzazione, i propositi adeguati sono elementi che evidentemente diventano centrali per uno yogin. 

Conquistare lo yoga vuol dire proprio diventare consapevoli della nostra mente; liberare essa da tutto quanto le impedisce di analizzare con chiarezza le situazioni significa attuare le scelte migliori al momento presente, ottenendo la costanza nel perseguimento degli obiettivi. 

Nel cammino verso un obiettivo si possono infatti presentare difficoltà e ostacoli di varia natura. Alcuni sono oggettivi mentre altri dovuti a fattori esterni, che non dipendono dal soggetto; altri, più insidiosi, prodotti dalla psiche, in particolare dalla componente emotiva (prāna), ancor più difficile da controllare. 

A questo punto entra in gioco l’intensità della determinazione di quanto l’obiettivo è stato posto come centrale e del saper gestire la nostra psiche, un aspetto centrale in tutte le forme di yoga. 

Yoga è interpretabile anche come realizzazione di un obiettivo, non potendo definire yoga una serie di esercizi fini a sé stessi e soltanto ordinariamente salutari. 

Tenere conto che per la legge delle probabilità una pratica yoga abbia degli effetti non assicura che tali effetti sono buoni per il soggetto, semplicemente in quanto non si tratta di attività sterili e determinate a priori. L’esercizio si rivela pratica di yoga quando è messo in relazione con il soggetto e mai quando rimane un’imitazione di quanto appreso da altri per imitazione esteriore. 

La costanza 

Un altro elemento legato all’obiettivo è la costanza e il buon proposito ne è dotato. Perseverare è la condizione essenziale per avere successo in tutto ciò che si fa, in qualunque campo e contesto che sia esso lavorativo, creativo, artistico, sportivo; 

le persone che hanno raggiunto traguardi importanti hanno perseguito con costanza indefessa l’obiettivo, orientando ogni particolare della quotidianità verso di esso. 

L’obiettivo prefissato è buono quando abbiamo la sicurezza di potervi dedicare una parte significativa della nostra vita. 

Dunque gli obiettivi da noi scelti sono buoni quando diventano fecondi ad ulteriori nuovi obiettivi che evolvono la nostra vita con ricchezza di passioni. Al contrario l’obiettivo sbagliato porta a sconfitte che bloccano tale slancio verso l’altro. 

Da tutto ciò appare evidente quanto sia importante la dedizione nel definire gli obiettivi giusti accompagnati da buoni propositi e riuscire a vivere con pienezza e soddisfazione la vita.

Yoga e Amore

«Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti.

[…]Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica.»

(di Francesca Bonsignori)

Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti. In particolare, nella visione tantrica è fondamentale quanto avviene nelle azioni concrete della quotidianità, dai pensieri, all’umore, alla salute. Armonizzare il rapporto con noi stessi e con il mondo nel vissuto di ogni giorno e ogni momento è quanto di meglio possiamo ottenere con lo yoga. Il livello del nostro benessere e felicità, quanto ci avviciniamo ad una condizione di armonia psicofisica, misura inequivocabilmente quanto conosciamo e sappiamo mettere in pratica lo yoga, ben oltre che nel fare soltanto degli esercizi su un tappetino.

Lascio da parte le forme ascetiche di yoga, fondate sulla mortificazione del corpo e della vitalità in favore di una vaga finalità spirituale che, ammesso che conducano realmente allo spirito, sono ben lontane dalla vita di gran parte di noi. Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica. 

Analizzando in profondità le cose, emerge come tutte le forme di yoga considerino centrale la capacità di interagire con il piano emotivo in tutte le sue manifestazioni. Le forme ascetiche, mirando ad un simile scopo, impiegano il silenziamento o addirittura la soppressione delle componenti emotive.

Nell’hatha yoga si parla di controllo: sono infatti le disarmonie emotive che ci inducono a comportamenti nocivi per la salute corporea e per l’equilibrio psichico.

Quando mangiamo male, scegliamo stili di vita impropri, ci soffermiamo su pensieri distonici, effettuiamo delle scelte come banalmente guardare programmi che ci destabilizzano, è sempre preceduta una compulsione avvenuta sul piano emotivo.

Talvolta mentre stiamo agendo una parte di noi sa di sbagliare ma non può fare a meno di persistere nell’azione come se fosse guidata da altro che da noi stessi.

Dal momento che l’amore è l’emozione più forte che caratterizza la vita di tutti, possiamo affermare che yoga è gestire la regina delle emozioni: l’amore. Si parla dunque di hatha yoga come lo yoga degli eroi, e penso non vi siano dubbi sul fatto che cimentarsi con una potenza così grande come quella dell’amore sia proprio una faccenda eroica e che dunque lo yoga ci renda degli eroi.

D’altra parte lo yoga è un cammino arduo, a partire dalla comprensione di noi stessi, che richiede di abbandonare schemi, valori, e modalità usuali di considerare le cose.

La forza dello yoga non ha nulla a che vedere con la forza muscolare proveniente dall’allenamento da palestra, parliamo di ben altro.

Questi principi comprendono ogni valenza che vogliamo dare alla parola amore, da un coinvolgimento passionale verso una persona, un’attività, un progetto, verso lo yoga stesso che appassiona molti di noi. Ma anche amore per noi stessi.

Per procedere nel processo di comprensione è necessario prima di tutto chiarire che controllare un’emozione non vuol dire escludere un piacere dalla nostra esistenza. Teniamo conto del detto ogni piacere dura poco, e aggiungerei che il più delle volte l’esperienza di un coinvolgimento è dalle stelle alle stalle, e le stalle sono tanto più opprimenti quanto più ci in alto siamo andati, e siamo stati vicini alle stelle. Tanto più elevato è il livello di coinvolgimento passivo, tanto più sgradevole sarà il risveglio.

Nella vita ordinaria non sospetteremmo che tutto ciò possa essere anche un processo attivo. Sapersi appassionare, innamorare, godere di quanto la vita ci offre per uno yogin è una pratica attiva, che non parte dal farsi attrarre magneticamente da un qualcosa che ci fa innamorare bensì da un’azione di innamoramento.

Naturalmente la prima situazione è quella usuale, direi la sola concepibile per molti. Tant’è che in inglese innamorarsi si traduce come to fall in love, letteralmente cadere innamorati. La condizione attiva è quella che non soltanto non ci fa pagare il conto pesante che il “cadere innamorati” ci presenta, ma è anche quella opportunità che ci può portare a godere pienamente l’esperienza immensa e totalmente appagante dell’amore.

Un principio analogo lo troviamo rispetto al piacere per il cibo, un aspetto centrale per la nostra vita, assolutamente importante da gustare con equilibrio. Mangiare non è solo nutrimento, ma è un’attività basilare che coinvolge il nostro insieme psicofisico, che è necessario appagare e coccolare pienamente. L’amore per il cibo è essenziale per la salute a 360°.

Per ottenere il massimo dell’appagamento è importante come si mangia e non solo cosa mangiare. Anche in questo caso essere attivi e presenti porta ad equilibrio ed appagamento, mentre i nostri avversari sono la compulsività verso il cibo, così come le regole ferree che ci costringono a restrizioni o regimi di varia natura, relegandoci a comportamenti alimentari che non gratificano e che non è detto siano del tutto salutari.

Tutte le religioni impongono regole alimentari, in quanto la via del controllo e dell’equilibrio è la più difficile, riservata agli yogin che non necessitano di regole.

Allo stesso modo vengono imposte regole riguardanti l’amore e la sessualità, intese come forze ancor più difficili da gestire. La loro gestione richiederebbe di controllare delle prorompenti parti emotive, operazione già difficile per uno yogin, impossibile al di fuori dello yoga.

Questo aspetto è particolarmente approfondito dal Tantra, molto conosciuto come termine, ma solitamente male interpretato. L’obiettivo del Tantra è rimanere lucidi ed evitare il coinvolgimento nell’atto sessuale, pertanto trattasi di uno stato psichico molto arduo da raggiungere. Riuscire a mantenersi al di sopra dell’emotivo è qualcosa da gestire molto prima dell’emissione del seme, e comunque non riguarda la parte fisiologica, che è naturale portare fino in fondo, tanto al maschile che al femminile, quanto lo stato emotivo e mentale.

In definitiva, l’amore in relazione allo yoga rientra nell’ambito del prânâyâmâ (gestione del pranâ), dove l’amore è una forma di pranâ ben più potente delle altre.

Arrivare a tanto equivale a trovare la chiave per vivere la propria vita in piena felicità, piacere, benessere.

Le modalità pratiche sono diverse. La prima, la più importante, è la comprensione di come stanno le cose.

Arco – Dhanurasana

La posizione dell’Arco è una posizione potente che agisce a livello fisico, pranico, mentale, spirituale e terapeutico. Inizialmente è sufficiente praticarla anche solo in fase dinamica per ottenerne incredibili benefici, ma il massimo si raggiunge quando la si padroneggia e si riesce a tenere senza sforzo anche per varie decine di minuti.

Azione a livello fisico

L’Arco agisce potentemente sugli organi addominali. Nella fase dinamica, si effettua un vero e proprio massaggio dell’addome che rivitalizza l’intera zona, riscaldandola e rilassandola.

Nella posizione statica finale si attua una forte compressione intra-addominale che “strizza” gli organi ivi contenuti come una spugna, espellendo il sangue venoso e rimandandolo verso il cuore. Questa azione non solo consente di eliminare il sangue oramai depauperato di ossigeno, ma anche di “sgonfiare” gli organi stessi, facendo ritrovare ad essi, la propria forma originale e contribuendo a diminuire od eliminare la ptosi.

Una volta rilasciata la posizione, quegli stessi organi si andranno a riempire di sangue arterioso fresco, che li rivitalizzerà.

Azione a livello pranico

Rimanendo nella posizione in fase statica e continuando a respirarvi profondamente, si andrà a stimolare l’afflusso pranico in quella zona, che tenderà immediatamente a riscaldarsi e vitalizzarsi.

Questo farà aumentare tapas, il fuoco pranico interno che potenzierà la quantità di vitalità (Virya) contenuta in noi, contribuendo a far divenire il soggetto sempre più forte, potente e carismatico, tale da suscitare in chi lo circonda, un senso di rispetto.

Quanto più il praticante rimarrà in fase statica, respirando profondamente, tanto più diverrà potente, cioè ricco e ridondante di Prana-Shakti, la Potenza Pranica cosmica.

Azione a livello mentale

La posizione dell’Arco contiene in sé l’archetipo del guerriero (Virat) e, dunque, contribuisce a sviluppare quella parte marziale della mente che chiamiamo la volontà (Iccha).

Lo stesso sforzo fisico deve essere sostenuto tramite una forte e ferma volontà mentale, senza la quale il praticante cederebbe molto prima di quanto potrebbe.

Azione a livello spirituale

Il personaggio centrale della Bagavad-Gîtâ è Arjiuna, l’Arciere, il prototipo dell’uomo che va realizzandosi. Di conseguenza questa posizione contiene l’Archetipo della realizzazione più elevata che si realizza quando la freccia (della mente) raggiunge il suo bersaglio (il cuore), realizzando l’intuizione superiore.

E questa posizione, nel mentre la attuiamo con l’intento rivolto a questo fine, contribuisce a farci realizzare la nostra natura più profonda.

Azione a livello terapeutico

Questa posizione fa aumentare considerevolmente Agni, il fuoco digestivo che permette: di metabolizzare Ama, le tossine accumulate nei vari organi e tessuti, di migliorare la capacità digestiva, di aumentare la resistenza e la reattività alle malattie e, non ultimo, di digerire ogni forma di stress e tensioni mentali ed emotive provenienti dall’esterno.

Per ottenere tutto questo, si richiede una pratica più intensa dell’ordinario, dell’ordine di almeno 15 minuti.

Tecnica

Posizione di Partenza:

Distesi sull’addome, fronte a terra, braccia lungo il corpo con il dorso a terra, gambe e piedi vicini.

Rilassarsi profondamente, poi portare l’attenzione sul respiro, equilibrandolo tra inspirazione ed espirazione. Ampliarlo progressivamente, sentendolo spingere nell’addome e nella pancia. Massaggiarsi i visceri e gli organi interni tramite questo respiro addominale. Aumentarne progressivamente l’intensità e la potenza, mantenendo comunque un respiro calmo e profondo, sino ad arrivare a traspirare. Identificarsi completamente con il respiro.

Fase dinamica:

A questo punto, flettere e sollevare le gambe, portandole verso la nuca, in modo da permettere alle mani di afferrare le caviglie.

Inspirando, tiriamo le gambe con le braccia, facendole sollevare (foto 2).

Effettuiamo tre respiri profondi, poi, trattenendo, iniziamo a dondolare il corpo in avanti ed indietro, effettuando un profondo massaggio dell’addome (foto 3-4). Torniamo in fase statica e, volendo, dopo aver effettuato tre respiri intensi, possiamo ripetere una o più volte il movimento.

Presa della Posizione:

Rimaniamo nella posizione, migliorandola ad ogni respiro, tirando progressivamente con le braccia ed allentando le articolazioni coxo-femorali (foto 5).

Respiriamo intensamente, aumentando progressivamente in una prima fase la sola inspirazione, ed in una seconda anche l’espirazione.

Introduciamo, poi, al termine dell’inspirazione, dei momenti di sospensione a pieno, che cureremo di intensificare progressivamente, sino a raggiungere il massimo delle nostre possibilità, compatibile con il mantenimento di una espirazione agiata. Durante questa fase andiamo a migliorare la nostra forza e la nostra potenza.

A questo punto, se ci è possibile, introduciamo al termine dell’espirazione anche dei momenti di sospensione a vuoto, durante i quali cercheremo di intensificare e migliorare la posizione.

Manteniamo la posizione per almeno 3 minuti, con l’obbiettivo di raggiungere nel tempo i 10-15 minuti. In ogni caso, non arriviamo mai a stancarci, cioè al punto da alterare significativamente il nostro respiro o il nostro battito cardiaco. Se ancora non siamo in grado di mantenere nemmeno i 3 minuti, allora, torniamo a terra ed effettuiamo l’esercizio una seconda o, se è il caso, una terza volta.

Ritorno dalla Posizione:

Torniamo lentamente verso terra, effettuando un’espirazione particolarmente lenta, che duri almeno due volte l’espirazione che abbiamo utilizzata nella posizione, meglio se ancora più lunga.

Ci distendiamo sull’addome (foto 6), nella posizione del Coccodrillo (Makarasana), portando i gomiti in avanti ed incrociando i polsi sotto la fronte, divaricando le gambe ed i piedi, con i malleoli interni che poggiano a terra.

Abbandoniamoci completamente alle sensazioni residue, lasciando che la nostra intelligenza del corpo “digerisca” quanto effettuato. Il respiro è spontaneo e leggero. La mente vigile è neutra e distaccata, in quanto tutto deve essere gestito dalla mente corporea.

Quando sentiamo di aver metabolizzato il tutto, effettuiamo una profonda ispirazione, tratteniamo a lungo a pieno, poi, effettuando un intenso sospiro, ci apriamo all’esterno, ritrovando la posizione seduta a gambe incrociate (Sukhasana) (foto 7).

Rimaniamo ad occhi aperti, gustando gli effetti residui che continuano a manifestarsi in noi, senza giudicare, né interpretare quanto sta avvenendo, ma, semplicemente, vivendo le sensazioni.

Roberto Laurenzi

Cobra – Bujangasana

Tecnica

Posizione di partenza:

Ci distendiamo proni, con le braccia lungo il corpo. Gambe unite, piedi uniti. Rilassiamo tutto il corpo, cercando di eliminare ogni tensione parassita. Abbandoniamoci completamente alla posizione, cercando di sentire la pesantezza del corpo, in modo da rilasciare l’intero apparato muscolare. Portiamo la nostra attenzione sulle zone ancora tese, in modo da neutralizzarle.

Portiamo ora la nostra attenzione sulle articolazioni, decontraendole. In particolar modo curiamo le articolazioni coxo-femorali e quelle del cingolo scapolare.

Percorriamo mentalmente più volte la nostra colonna, dal basso in alto e dall’alto in basso, cercando di percepire ogni vertebra, allentandone le tensioni muscolari, anche attraverso l’espiro.

Una volta ottenuto lo stato di rilasciamento ottimale, concentriamoci sulla respirazione, equilibrandola e rendendola spontanea e naturale.

Quando il flusso respiratorio si è stabilizzato, andiamo progressivamente ad aumentarlo, eventualmente utilizzando l’ujjayi.

Quindi facciamo scorrere mentalmente questo respiro potenziato lungo la colonna (cervicali comprese). Successivamente portiamolo alle articolazioni coxo-femorali.

Presa della posizione:

Portiamo i gomiti a terra, all’altezza delle spalle.

Inspirando, ci solleviamo da terra, inarcando la colonna, e solleviamo il tronco e la testa, senza arrivare al nostro massimo.

Espirando, torniamo lentamente a terra, con lo stesso tempo dell’inspirazione.

Effettuiamo più volte questo movimento dinamico.

Quindi stringiamo i gomiti, poggiandoli a terra sotto le spalle, e rimaniamo in fase statica, nella posizione della Sfinge.

Curiamo di inarcare il più possibile la colonna all’altezza delle scapole. Tiriamo indietro il mento, facendolo poggiare sulla gola, e cerchiamo di tirare indietro il più possibile il collo, cercando di portare il viso in posizione frontale (perché, tendenzialmente, tende a guardare verso il basso, in conseguenza di scarsa mobilità tra le scapole).

Respiriamo profondamente, cercando con ogni respiro di mobilizzare al meglio la colonna, soprattutto a livello scapolare e della settima cervicale. Allentiamo le tensioni nella parte anteriore del collo, liberando le clavicole.

Con una profonda e lenta espirazione, torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo le mani a terra, collocandole all’altezza delle spalle, effettuando più volte il medesimo movimento sopra descritto. In fase statica, respiriamo profondamente, inarcando sempre meglio la colonna ad ogni respiro. Quindi torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo, ora, le mani all’altezza delle costole fluttuani (se siamo molto sciolti, al’altezza della vita) e ripetiamo alcune volte la fase dinamica.

Dopo cinque o sei movimenti dinamici, raggiungiamo la fase statica, rimanendo nella posizione finale.

Facciamo scorrere più volte il respiro lungo la colonna, migliorando ogni volta la posizione.

Concentriamoci ora nel petto. Portiamoci il respiro, facendovelo espandere. Il respiro diviene sempre più intenso e ci porta ad espandere progressivamente il torace in avanti. Contemporaneamente andiamo ad allentare le tensioni intercostali ed il nostro torace diviene sempre più sciolto e mobile.

Portiamo, ora, la nostra attenzione respiratoria tra le scapole, inviandovi una sempre maggiore quantità di aria ad ogni respiro, inarcando sempre più questa zona.

Spostiamo, la nostra attenzione all’interno dello spazio tra le sopracciglia, e respiriamovi con sempre maggiore intensità, sino a raggiungere uno stato di euforia.

Abbandoniamo momentaneamente il respiro controllato, lasciandolo alla spontaneità conquistata, ed andiamo a controllare e rilasciare ogni tensione corporea, concentrandoci soprattutto: sui glutei, sugli sfinteri, sulle gambe, rilasciando al massimo ognuna di queste parti.

Pratica di potenza:

Torniamo, ora, a concentrarci sul respiro, amplificandolo progressivamente.

Raggiunto il massimo respiro equilibrato, immaginiamo che l’aria che entra in noi sia permeata di luce.

Seguiamone mentalmente il percorso lungo le narici, sino ai sinus frontali, dietro le sopracciglia, ed assorbiamo in questa zona questa Potenza Luminosa (Prakasha Shakti), sino a sentire che emettiamo luce dal Terzo Occhio.

A questo punto, continuando a percepire la luminosità tra le sopracciglia, conduciamo il respiro permeato di luce nei polmoni, riempiendoli anch’essi di Potenza Luminosa, sino a sentire che questa si espande al centro del petto, irradiandosi verso l’esterno.

Mantenendo anche questa seconda percezione, portiamo il respiro permeato di Potenza Luminosa lungo tutta la colonna, sino a che anch’essa sia interamente imbevuta ed irraggi luminosità.

Distacchiamoci dall’attenzione sul respiro, che continuerà spontaneamente, e concentriamoci sulle tre zone che stanno irradiando Potenza Luminosa, realizzando entro di noi l’espressione vivente di questa Potenza.

Stacchiamoci anche da questa attenzione, preparandoci ad abbandonare la posizione. Queste tre zone continueranno, comunque, ad irraggiare luminosità spontaneamente, ancora per parecchio tempo.

EFOA International

Uscita dalla posizione:

Solleviamo il mento, inarcando il capo all’indietro e, contemporaneamente, solleviamo le gambe alla verticale, flettendo le ginocchia, che rimangono saldamente a terra. Rimaniamo in questa posizione per alcune respirazioni. Poi riportiamo le gambe a terra, rilasciandole, e facciamo scendere la testa, lasciando che prenda la sua posizione naturale per la nostra conformazione strutturale.

Quindi, portiamo la nostra attenzione sulle mani e sulla forza con cui poggiano a terra. Sostenendoci adeguatamente, effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo e, espirando lungamente, torniamo a terra con estrema lentezza, abbandonandoci completamente.

Allunghiamo le braccia oltre la testa, fronte poggiata a terra, nella posizione della Prosternazione, e lasciamo andare alla pesantezza, abbandonando ogni tensione, ogni attenzione, ogni pensiero, lasciando che l’Intelligenza del Corpo metabolizzi quanto effettuato. Rimaniamo in questo stato di torpore, il tempo che riteniamo necessario.

Poi, lentamente, ci portiamo in posizione Seduta (Sukhasana).

Qui riviviamo le sensazioni residue, godendo del riverbero luminoso delle tre zone che ancora andrà manifestandosi.

Rimaniamo in questa condizione tutto il tempo che riteniamo gradevole, quindi effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo, e, tramite un profondo, intenso e liberatorio sospiro, ci apriamo all’esterno.

Roberto Laurenzi

IN CONTINUA EVOLUZIONE

di Laura Bonomini

E’ appena terminata l’annualità di Pranayama in cui abbiamo imparato a governare e guidare il nostro respiro e la nostra forza vitale nel corpo. Attraverso volontà e intenzione mentale, il soffio del respiro, impregnato di Prana, ci purifica e cambia il nostro stato psico-fisico.

Grazie alle tecniche di Pranayama, ho potuto riscoprire quello che il bambino, negli anni della prima infanzia, sperimenta e vive ogni giorno: la sua carica vitale gli permette di mantenere una mente sveglia, attiva, pronta ad apprendere e a conoscere il mondo. E della sua conoscenza fa tesoro.

Ritornare in un certo senso bambina, ma con una mente da adulta, mi ha permesso di trovare un significato più profondo riguardo al mio percorso di studio dello Yoga in Efoa.

Françoise mi ha aperto un mondo, il mondo del mio io.

Ho ancora tantissimo da scoprire ed è incredibile come kapalabhati dopo kaphalabati, dhauti dopo dhauti, bandha dopo bandha, nadi sodhana, bastrika … io non mi stanchi mai di osservare e di annotare nella mente quello che mi succede di volta in volta.

E’ un cammino evolutivo che non finirà mai, in cui si aprono ogni giorno nuove frontiere: tutte le esperienze mi lasciano una sensazione di libertà, libertà dalla gabbia dei condizionamenti, dalle approvazioni che ricercavo dagli altri, dall’illusione dei successi che pensavo di meritare, dagli affetti che supplicavo e che non ottenevo … davvero non immaginavo!

E pensare che mi sono avvicinata allo yoga con la semplice aspettativa di lenire i miei disturbi fisici!!

Ora assaporo, senza quella fretta che mi caratterizzava, il momento, la lentezza, la pace la tranquillità. Mi sveglio col sorriso e con l’entusiasmo. Mi sono anche domandata: “ma dov’ero prima ? , dove sono stata tutti questi anni? cosa rincorrevo?“ Arrivata a questo punto non mi interessa più quello che ero: l’importante è che io sia qui, ora, in questo preciso istante.

Lo Yoga della Potenza

La filosofia alla quale si ispira la nostra scuola dell’Efoa è quella del Tantra (ne sto leggendo alcuni libri e non riesco ad ultimarli, perché non voglio… credo… a questo punto; quindi torno sempre indietro a riappropriarmi di alcuni tesori e a riflettere su alcuni passi, per crearmi una scusa e non completarli mai!!)

La parola sanscrita Tantra è composta dalla radice Tan (estendere, espandere) e il suffisso Tra (trama, tessuto). Il significato del termine è quindi quello di espandere una trama, un tessuto ovvero la nostra coscienza umana, individuale, che si ricongiunge con la coscienza universale.

Noi apparteniamo all’Universo, non abbiamo ricordi in merito a vite precedenti e non vi è alcuna certezza sull’aldilà.

Françoise cita spesso a questo proposito la famosa frase di Socrate “so di non sapere”. Meglio non farsi illusioni, meglio vivere nel presente, perché possiamo facilmente verificare che questa nostra manifestazione umana ha in sé tutta la potenza del divino che l’ha generata (ogni nostra cellula ha le caratteristiche di un piccolo mondo!).

Un gioco della Vita nell’Universo

In realtà potremmo considerarci come un gioco della Vita dell’universo, che a un certo punto (per una ragione che ignoriamo) ha deciso di identificarci in una forma terrestre, e quando il nostro ciclo sarà terminato, ritorneremo a far parte del Tutto, di nuovo anonimi e probabilmente inconsapevoli.

Questa Entità che gestisce il gioco dell’Universo, con caratteristiche divine, era chiamata da André van Lysebeth “il grande architetto”. Definizione più che azzeccata.

L’idea di ritornare nella ciclicità della Vita dell’Universo, al termine della mia Vita terrena, mi tranquillizza moltissimo.

Da questo semplice pensiero si evince che, poiché faccio parte di qualcosa di più grande di me e in me si rispecchiano qualità di natura divina, ho il dovere di portare avanti il progetto della Vita che mi è stata affidata e devo farlo nel migliore dei modi.

Essendo legati al Tutto ogni nostra azione avrà un riflesso sul Tutto, anche ad enormi distanze, proprio come un disturbo che si manifesta in una parte anche piccola e periferica del nostro corpo e che si ripercuote inesorabilmente sull’intero benessere psico-fisico.

Nel nostro microcosmo, l’Essere Supremo e creatore è la mente. Il corpo è il supporto della mente; le permette di trasformare i suoi pensieri in azioni: quindi il corpo deve diventare il tempio della mente, che rispecchia il divino in noi .

Ricollegandoci allo Yoga, è facile trovare il vero significato degli Asana: questi diventano un allenamento, una palestra di vita in grado di farci riscoprire il nostro vero potenziale e farlo riportare nella realtà di tutti i giorni, in ogni singolo gesto.

In questo nostro passaggio sulla Terra tenteremo di realizzare Purna, la completezza, caratteristica propria dell’aldilà, dato che in noi alberga tutta la potenza del divino che ci ha creati .

La prima sequenza dello Yoga della Potenza

Durante la prima lezione di Asana abbiamo sperimentato la possibilità di attingere dalle forze cosmiche e terrestri un Prana puro e potente al tempo stesso, in grado di vitalizzare la nostra riserva pranica, contenuta nei Kanda principali dell’addome e del cuore (centro del torace).

Riconnettermi a Prana Shakti (la Potenza Creatrice) attraverso i Kanda, i punti Marma e le Nadi mi ha dato la sensazione concreta di aver acquisito grandezza e forza interiore.

Ho realizzato che la mia mente è in grado di immagazzinare il Prana dell’Universo quando ho avvertito i risultati, inizialmente sottoforma di grande calore localizzato nella sfera dell’addome e in seguito di un dolce tepore diffuso nella zona del petto.

Al termine della sequenza e per alcuni giorni una strana sensazione si è impadronita di me: la definirei come una forma di ardore, una spinta vitale che ha animato la mia quotidianità, l’ha resa “speciale”.

Probabilmente mi ci abituerò e quindi tutto sembrerà più normale, ma sono convinta che quando ci sintonizziamo con Prana Shakti emergono le nostre potenzialità latenti, inespresse, da tempo sopite nella profondità della nostra anima.

Con le sequenze dello Yoga della Potenza ci riapriamo, ritroviamo un rapporto di interscambio fra il nostro centro e le forze della natura, rimanendo consapevoli di essere individui unici ma, al tempo stesso, connessi all’intero Universo, dal quale veniamo e al quale ritorneremo.

La progressione nell’Arte della sequenza

Di Alessandra Romani

Così come nella natura vi è una progressione verso la perfezione, così nello yoga, necessariamente è previsto che il praticante attui un’avanzamento graduale, per raggiungere lo scopo prefisso: la liberazione finale.

In India il concetto di “Krama mukti” è quel cammino che in modo costante porta alla perfezione.

Tale filosofia si ritrova anche, nella “ronda delle esistenze” o Samsara, in cui l’individuo, attraverso varie vite, passa da un piano di esistenza o loka all’altro, a causa delle azioni compiute nelle vite anteriori.

Da tale progressione non è possibile fuggire a meno della liberazione: è probabile salire ad un grado più elevato e migliore di vita, per poi inesorabilmente ritrovarsi a scendere in una condizione peggiore.

Per il praticante, è impossibile raggiungere lo stato di Yoga immediatamente, poiché non è spesso alla sua portata, ma può essere perseguito volontariamente, solo attraverso passaggi progressivi: il “Krama”.

La stessa teoria del Karma, ovvero la progressione dei meriti e dei demeriti che l’uomo accumula durante l’esistenza, fa riferimento ad uno sviluppo che dalla vita attuale porterà verso la successiva Via dei Cieli (Deva-Yana) o verso la Via degli Inferi (Prithi-Yana).

Nelle classi ordinarie di Hatha-Yoga difficilmente si ritrova tale “progressione”, poiché ogni asana è staccato l’uno dall’altro; lo Yoga, diventa perciò una semplice ginnastica magari raffinata e che fa bene al corpo per poi giungere ad uno stato meditativo alla fine della sequenza.

In sostanza, in India, l’Hatha Yoga è considerato un mezzo per portare lo yogi ad essere un animale in buona salute per la meditazione perché quest’ultima assume un valore più elevato della parte fisica.

In Occidente, per quanto possiamo praticare tramite la presenza consapevole, Vidya, il risultato sarà sempre circoscritto rispetto alla fase Meditativa. Immettere il concetto di Krama in una seduta di Hatha yoga è mirare ad ottenere via via dei livelli di interiorizzazione sempre più elevati nell’ottica dell’unione del corpo alla mente.

Infatti, scivolando da un asana all’altro nel Krama-vidya, come senza accorgersene, si sviluppa di volta in volta una concentrazione molto elevata rispetto ad una semplice seduta Hatha yoga classico. Il risultato sarà quindi più potente di uno stato meditativo, poiché saranno coinvolti sia il corpo che il respiro ininterrottamente, in un sistema che si riunifica alla mente. Da uno stato di dispersione, Avidya o non consapevolezza, giungeremo quindi ad uno stato di Vidya o consapevolezza.

La non consapevolezza, in India, è causa di sofferenza e malattia e la soluzione di tutto ciò è comprendere e realizzare la Vidya nella nostra vita uscendo dall’ignoranza. Nell’asana si può affermare che per far ciò, occorre effettuare delle forme spaziali corporee guidate dall’interno e volute: qualitativamente diverse da quelle ordinarie ed esterne che assumiamo per schemi sociali od involontari. Ogni forma spaziale assume un valore diverso a seconda di come viene eseguita, realizzando un differente spazio interiore.

La mente cosciente vede e percepisce la posizione secondo un suo schema corporeo: con la progressione della pratica nella modalità “krama” ci sarà un approfondimento della consapevolezza a tal punto che la mente si unirà sempre più concretamente al corpo.

Le fasi fondamentali di una sequenza nell’ottica del Krama Vidya sono:

  • la presa di contatto: percezione sintetica del corpo e del respiro come punto di partenza e paragone alla fine della pratica;
  • le prime azioni: esercizi dinamici per percepire corpo e respiro;
  • la giusta misura: un concetto molto importante nel Krama che implica un dominio della propria natura più o meno competitiva;
  • il ritorno dall’asana assunto: senza perdere il controllo e senza creare una frattura nell’insieme del fluire della sequenza;
  • il passaggio fra una posizione e l’altra specialmente se speculare: lento e adeguato se la mente ha bisogno di riposarsi, se la posizione ha creato stanchezza, o disagio perché ha richiesto equilibrio, oppure come fase di digestione per osservare le sensazioni residue dell’asana;
  • aumento o diminuzione progressivo dell’intensità della consapevolezza e del respiro relativo alla realizzazione dell’esercizio: ad esempio in un esercizio di equilibrio sarà potenziata l’attenzione che permetterà di trovare una statica delle forze per restare immobili, bilanciando quindi il respiro a tal fine.

Tutto questo fluire armonico è Krama: un perenne divenire perfettamente ordinato tendente alla perfezione.

Nel krama-vidyâ ci si centra sulla posizione, come nell’hatha-yoga classico, ma, al momento di lasciare l’asana e di conseguenza le membra, l’attenzione e la concentrazione, ci si interiorizza ancora di più, entrando nella successiva posizione con un grado di raccoglimento più elevato. Nel krama-vidyâ ci concentriamo sul corpo e sul respiro, avendo una riuscita molto più efficace della meditazione consueta.

In quest’ultima, infatti, si agisce solo sulla mente, mentre con krama-vidyâ si agisce sull’intero insieme di corpo, respiro e mente, riunificando la materia allo spirito.

Il Cosmo, l’ordine del creato, si manifesta in questo modo; l’Uni -verso è caratterizzato da un ben preciso “verso” giusto alla cui base vi sono armonia e centratura, diverso dal Caos.

La progressione nell’Arte della sequenza (parte 2)

Nell’ottica del Krama-vidya, ho considerato una pratica che avesse una similitudine con il fluire della Natura.

La sequenza vuole rappresentare la simbologia dell’Albero che dal seme evolve verso la pienezza coronando le proprie potenzialità così come avviene per il praticante nel cammino dello Yoga, dove ciascuno percorre un’evoluzione verso le proprie naturali inclinazioni.

Tale crescita sarà effettuata nel migliore dei modi se potrà ricevere il nutrimento degli elementi – Maha Bhuta: Terra, Acqua, Fuoco, Aria cercando di non disperdere da un passaggio all’altro le qualità delle passate sostanze cercando di farle proprie in una struttura armoniosa.

La sequenza favorisce con lo scorrere continuo e fluido, il mantenimento della consapevolezza, attraverso le regole sopra dette e che saranno esplicitate in dettaglio.

Il sostegno di tutto ciò è il respiro che costituisce la sovra-consapevolezza e dalla scelta delle posizioni armoniche le une con le altre, per preparare la verticalità dell’Albero manifestazione del percorso di crescita giunto a maturazione.

L’equilibrio dell’Albero è mantenuto grazie alla forza delle sue radici che costituiscono la base d’appoggio in sinergia col tronco dove si trova il baricentro sia fisico che psichico del respiro, la chioma resiliente che fa fronte alle circostanze avverse e da cui coglie opportunità.

La meditazione finale si concentra sulla consapevolezza che nessun Albero è uguale ad un altro Albero; anche ognuno di noi è differente l’uno dall’altro; il percorso della propria vita, quindi deve essere volto a nutrire la propria peculiarità, per poter esprimere al massimo le potenzialità dentro di noi e far fiorire la propria essenza.

  1. Sukkhasana: obiettivo: presa di contatto. Tecnica: percepire globalmente lo schema corporeo. Sentire il flusso del respiro che si muove dentro e attraverso il corpo, sentire i punti di contatto con il pavimento. Effettuare una profonda inspirazione, trattenere per qualche istante, e sospirare appoggiando consapevolmente alla terra anche il respiro.

Con questo esercizio ci siamo accostati al nostro corpo. Nell’ordinario, il corpo viene utilizzato, ma non percepito. Per il corpo risulta vitale l’essere guardato da parte della mente. I sensi sono stati rivolti all’interno e si sono attivate le terminazioni nervose («Lo Yoga è una disciplina che ci consente di porre sotto il nostro controllo tutte le terminazioni nervose del nostro corpo e ci permette di utilizzarle al meglio e consapevolmente»).

  1. Mukha Bhastrika– il Mantice con la Bocca: il respiro viene resettato. Si parte da questo per appoggiare la pratica, liberando il tratto diaframmatico ed addominale e portando l’accento soprattutto sulla espirazione.Tecnica: Vajrâsana, pugni chiusi all’inguine, bocca ben aperta – fino a tendere gli sterno-cleido-mastoidei, denti socchiusi, inspirare, quindi espirare “esalando” l’aria ritmicamente, sino ad esaurirla completamente, con un movimento in avanti che ci porta con la fronte a terra, dove si rimane a lungo in apnea a vuoto; quando si sente il desiderio di tornare ad inspirare, allora si inala sollevandosi, stando attenti a far coincidere l’intero movimento con la durata della inspirazione.
  2. Bandha-dharmikhâsanala Foglia Piegata con i pugni nella pancia: il seme vivo in potenza del ritmo vitale è protetto dalla terra che lo accoglie (TERRA).

Obiettivo: accentuare gli effetti dell’esercizio precedente, portando la consapevolezza ancor più sul ritmo vitale in potenza. Tecnica: effettuare Mukha-bhastrikâ sino a portare la fronte a terra, rimanere nella posizione (invece di tornare), effettuare respiri ampi e profondi, focalizzati nell’addome; nella posizione portare tutta l’attenzione al ritmo del respiro. Quando si desideri ritornare, lo si effettui come per il ritorno di Mukha-bhastrikâ; raggiunta la posizione seduta, portare tutta l’attenzione al ritmo del respiro.

  1. Shashankâsana – la posizione della Lepre il seme inizia a germogliare.

Obiettivo: per imparare a trovare la giusta misura della crescita, assaporando il ritmo di andata e valorizzando il ritorno. Tecnica: dalla posizione di Vajrâsana portiamo la testa a terra, il più vicino possibile alle ginocchia. I palmi delle mani poggiano a terra accanto alla testa. Solleviamo lentamente i glutei, per cui la testa si trova a rotolare con il cuoio capelluto contro il suolo, stirando le cervicali che possono trovarsi a “lavorare” molto intensamente. Cerchiamo di arrivare alla posizione più avanzata possibile, conciliando le nostre possibilità con la forma statica con agio e gradevolezza. Se tutto ciò si attua con facilità, allora intrecciamo le mani dietro i lombi, i palmi rivolti verso il basso (ma non per forza). Se ancora tutto ciò ci risulta gradevole, allora spingiamo le braccia verso la testa ed oltre, sino a raggiungere il punto limite (ma gradito) delle nostre possibilità. Stiamo nella posizione, sino a che non avvertiamo che questa si è conclusa, allora, con dolcezza, effettuiamo specularmente le fasi ritornando con la testa a terra. Un elemento fondamentale in questa posizione, ma anche generalmente in tutti gli altri âsana, è quello di non forzare mai, cosa che si traduce nell’attuare la giusta misura. Il criterio di giudizioè estremamente difficile da attuare, in modo particolare all’inizio, poichè, spesso, la svogliatezza può indurci a far meno di quanto dovremmo, così come la sfida con noi stessi a far di più, danneggiando il corpo. In aiuto possiamo attuare le seguenti strategie:

1ª regola: procedere con calma verso la posizione finale;

2ª regola: arrivati al massimo, torniamo indietro un pochino, certi, così di restare entro i nostri limiti di elasticità;

3ª regola: controllare di percepire una “stimolazione gradevole”, segno che stiamo sì lavorando, ma non stiamo esagerando;

4ª regola: verificare alla fine della posizione se vi sia un surplus di percezioni residue, se non, anche delle parti doloranti: prenderemo nota mentalmente di ogni esperienza, conoscendo i limiti del nostro corpo.

Un altro elemento molto importante per la corretta pratica degli âsana è dato dal modo con cui ritorniamo dopo la loro esecuzione. Infatti, come è importante porre cura ad assumere una forma, altrettanta cura occorre nell’abbandonarla. La sperimentazione ci spiega che, pensando di aver concluso l’âsana e, a volte, essendo andati al di là delle proprie possibilità, lo si lascia velocemente, dimenticando ogni consapevolezza. Perciò sarà necessario impiegare al rientro almenolo stesso tempo dell’andata, effettuando specularmente tutte le manovre compiute per prendere la posizione, mantenendo inalterata, anzi potenziando, la concentrazione. Se siamo capaci di attuare tutto ciò, il successo sarà garantito e la consapevolezza si manterrà intatta durante tutto l’arco della sequenza.

  1. Movimento gatto in salita: il seme inizia a crescere acquisendo un movimento sinuoso verso l’alto (ACQUA) Obiettivo: dar vita al movimento della piantina attraverso l’azione lungo tutta la colonna ed in particolar modo sui lombi, sulle cervicali e sulle clavicole.

Tecnica: posizione a 4 zampe. Procediamo con un movimento ritmico espressione del respirocon la fase inspiratoria di apertura del tronco, inselliamo la schiena e solleviamo la testa in alto; espirando, curviamo la colonna e portiamo il mento verso il torace. Lasciamo che il movimento del corpo sia l’espressione del ritmo della respirazione. Percepiamo l’opposizione delle fasi insieme alla loro complementarità. In seno all’inspirazione sono comprese potenzialmente le forze e le caratteristiche dell’espirazione e viceversa; nel movimento di apertura del tronco esistono potenzialmente e si creano le forze e i meccanismi del movimento di chiusura del tronco e viceversa. Sentiamo che esiste la stessa intensità di realizzazione del movimento sia in chiusura che in apertura, per creare la consapevolezza che in seno all’una forma vi è l’altra e viceversa, così da sprofondare nell’interiorità corpo/mente.

  1. Shaktiasana: nel baricentro si sviluppa la forza vitale che estende la piantina dalla terra verso il cielo: dalla posizione precedente, ci portiamo eretti, rientrando le dita dei piedi e flettendo le ginocchia, fino ad appoggiare le mani sopra i piedi o a una certa altezza delle gambe dove possiamo mantenere la colonna lunga, allineata e mobile.

Movimento dinamico:

Inspirazione:

Riallunghiamo lontano all’indietro il coccige da una parte e la testa dall’altra parte

allineata con il resto del tronco, percependo la fermezza dell’addome e del perineo. La percezione sale sulla colonna.

Espirazione:

Prendendo appoggio sulle mani, abbassiamo la testa per appoggiare il mento, sull’alto dello sterno, spingiamo l’ombelico verso la colonna e contraiamo il perineo. La percezione scende.Installiamo ilmovimento dinamico con la sospensione del respiro: inseriamo nel ritmo del respiro un tempo per la sospensione a polmoni pieni e un tempo per la sospensione a polmoni vuoti; per questo, come abbiamo fatto in precedenza dobbiamo accelerare il movimento. Il ritmo da mantenere sarà quindi 1.1.1.1.

Durante le sospensioni attiviamo i 3 Bandha e proviamo a sentire contemporaneamente i 3 punti di legature e il senso di elevazione e di espansione del torace.

Dopo aver praticato 5 respirazioni con le sospensioni, ripristiniamo l’equilibrio respiratorio per alcune respirazioni lievi e lunghe con la mobilità del tronco.

E infine, ci raddrizziamo qualche istante in piedi, in una posizione neutra dove lasciamo andare la respirazione spontanea. Percepiamo semplicemente l’asse della colonna che esiste naturalmente e si prolunga all’infinito verso la terra e il cielo.

  1. Surya Namaskar Mudra: il calore del sole nutre vitalizza sottilmente e fa crescere la piantina (FUOCO)
  1. Trikonasana in dinamica: i rami conquistano lo spazio in tutte le direzioni – espansione (ARIA)
  1. Vriksasana: la pianta è cresciuta grazie a tutti gli elementi con le radici solide che permettono alle fronde di oscillare al vento. Si è resa unica ed esprime la sua qualità, espandendo la sua essenza.

Le flessioni in avanti

di Dania Bicchierai

Una gestualità naturale

I movimenti che compiamo nella vita quotidiana si realizzano quasi esclusivamente in avanti; proprio per questo motivo è estremamente importante utilizzare uno schema corretto di questo tipo di mobilità. Quando ci spostiamo, nel camminare o correre, o muoviamo le mani per afferrare un oggetto, lo facciamo prevalentemente nello spazio davanti al corpo.

La flessione in avanti, inoltre, corrisponde ad una forma estremamente naturale per il corpo, in quanto costituisce la posizione mantenuta dal feto durante tutta la permanenza nel grembo materno. È anche la posizione che assumiamo naturalmente addormentandoci da seduti, quando il corpo si ripiega spontaneamente su sé stesso.

Aspetti fisici:

Sinergia delle catene

Nella nostra gestualità vengono attivate tutte le catene posturali, ma in ogni specifico atteggiamento una di esse risulta maggiormente coinvolta. Spesso la catene anteriore e quella posteriore vengono considerate “antagoniste”; in realtà la scioltezza del movimento deriva proprio dalla loro azione sinergica. Le due catene devono funzionare in perfetta complementarietà, cosicché all’attivazione di una corrisponda un rilasciamento dell’altra.

Nello specifico, le flessioni in avanti si realizzano attraverso un’attivazione della struttura anteriore, contestualmente al rilasciamento di quella posteriore. Flettendosi in avanti la struttura posteriore, ordinariamente utilizzata per raddrizzarci e mantenere la verticalità, dev’essere in grado di rilasciarsi per agevolare il piegamento.

Nel mantenimento dell’asana è opportuno focalizzare l’attenzione soprattutto sul nostro spazio anteriore, che viene attivato per potenziare il senso dell’appoggio e della chiusura che caratterizzano i piegamenti in avanti.

Uso di anche e bacino

Per non sovraccaricare la colonna vertebrale è fondamentale realizzare i piegamenti in avanti a partire dalle anche e dal bacino. Le anche costituiscono infatti il perno che collega il tronco alle gambe, articolando il femore sul bacino. L’allungamento posteriore deve sempre essere realizzato a partire dalla anche, in modo da evitare che si manifesti la retropulsione delle ginocchia; è importante, quindi, fare attenzione a preservare la naturale lordosi delle gambe.

Uso dei piedi

La mobilità delle anche, a sua volta, è favorita da un corretto utilizzo di piedi e caviglie. In particolare, un fulcro fondamentale per l’allungamento posteriore è costituito proprio dallo scivolamento in avanti dei talloni (da non confondersi col portare i piedi a martello, che provoca invece un raccorciamento).

Il respiro sulla colonna

Se non riesce a respirare, la colonna può essere rigida e “paralizzata” anche se esteriormente appare molto flessa.

La vera scioltezza è data dalla capacità di preservare la corretta vitalità della spina dorsale, grazie al realizzarsi del suo naturale ondeggiare dato dal respiro in qualunque posizione ci si trovi. I dischi inter-vertebrali sono alimentati per osmosi dalla circolazione linfatica grazie al movimento del diaframma, che con l’inspiro determina una decompressione e un allungamento della colonna, e con l’espiro la riporta in una posizione neutra, che corrisponde ad una lieve naturale compressione dei dischi.

Questo meccanismo di pompaggio consente il metabolismo del disco, determinato dall’azione ritmata di assorbimento ed eliminazione, promuovendo la salute dei dischi e la vitalità della colonna.

Proponiamo asana in avanti non per arrivare a piegarsi sempre di più, ma per imparare a far respirare la colonna in posizioni sempre più complesse (per es. Halasana).

Aspetto respiratorio:

Nelle flessioni in avanti la fase respiratoria fondamentale è l’espiro.

L’attivazione e la contrazione dello spazio anteriore del corpo (per esempio in Pashimottanasana) ci permette di arrotolarci maggiormente in avanti, attivando ulteriormente la chiusura ed evidenziando l’aspetto “terra” della posizione. Inoltre, l’espirazione è naturalmente favorita dalla Gravità, cosicché basta abbandonarvisi perché possa avvenire spontaneamente, senza alcuno sforzo.

Nello Yoga, rispetto al modo di respirare ordinario, l’espiro viene reso attivo e potente, in modo che venga concentrata al centro dell’addome la forza che poi scaturirà in un inspiro ampio e nutriente.

Aspetti psichici:

Mettere il corpo in una determinata forma ha anche ben precisi effetti interiori: non si tratta, dunque, soltanto di flettere il corpo, ma di indurre una specifica dimensione psichica. A livello mentale, anche inconscio, “andare avanti” ha un’accezione positiva, correlata con l’assecondare il flusso della vita ed esserne parte.

La gravità e l’elemento Terra

Le posizioni in avanti potenziano il nostro senso dell’appoggio e la capacità di relazionarci con la Terra, con tutto il suo significato simbolico.

Le posizioni di flessione, infatti, portano tendenzialmente verso terra, mentre se dobbiamo metterci in azione è necessario svincolarsi dalla gravità per poter vivere la verticalità.

Viene attivato un tipo di Prana che corrisponde al soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali legati alla sopravvivenza: il nutrimento, il sentirsi accolti e sostenuti, la capacità di abbandonarsi per poter dormire e rigenerarsi.

Questi elementi sono imprescindibili per accumulare il potenziale che ci possa permettere poi, eventualmente, di attivarci e svincolarci dalla Gravità e dalla Natura, come avviene ad esempio nelle flessioni indietro.

Chiusura e interiorizzazione

Le posizioni di flessione in avanti vengono associate alla chiusura: la forma che diamo al corpo corrisponde ad un ben preciso atteggiamento interiore, che in questo caso sarà di interiorizzazione.

Ripiegarsi e avvolgersi su sé stessi porta a rientrare nel proprio spazio, dove ci possiamo sentire al sicuro, in un atteggiamento di riflessione e raccoglimento.

Rilasciamento

Le posizioni in avanti generano un tipo di prana che nella vita ordinaria corrisponde a quello necessario per abbandonarci e lasciarci andare.

Se non siamo in grado di abbandonarci non possiamo dormire, e il sonno rappresenta uno dei nutrimenti fondamentali per la vita.

Nel quotidiano, dunque, questa tipologia di prana corrisponde ad atteggiamento di tipo passivo, che nello Yoga diventa una forma attiva di rilasciamento, in cui la mente non abbandona il corpo, ma resta vigile.

TUTTO E’ IN TORSIONE NELL’UNIVERSO

di Paola Cosolo Marangon

Se ci si muove stimolati dalle cose esterne, questo è l’istinto dell’essere. Quando ci si muove senza venire stimolati dalle cose esterne, questo è il movimento del cielo.

Il segreto del fiore d’oro – Bollati Boringhieri, Milano, 2016 (prima ed. It.1981) pag.126

La riflessione per la settima lezione di Asana parte da una frase di Françoise: “se pensate all’universo, tutto si muove in torsione”.

Abbiamo praticato alcuni asana considerando la torsione quale elemento fondamentale del lavoro interiore. Abbiamo lavorato su noi stessi e sulla percezione dell’IO, partendo dalla respirazione toracica: non solo il costato anteriore, ma soprattutto quello posteriore. La lezione pratica è andata via via a concentrarsi sul corpo, sul lavoro dei muscoli, sulle attivazioni delle catene posturali.

Al rientro a casa, si ripete la lezione mettendosi sul tappetino e tentando di comprendere anche senza la presenza del maestro. E’ questa attivazione che favorisce il lavoro che deve essere portato fuori dallo spazio sacro del tappetino, per diventare vita.

La mia attitudine allo Yoga non si basa solo sulla sperimentazione con il corpo, non mi basta vivere mettendo in pratica, ho bisogno di capire e di approfondire, ho bisogno di studiare e di cercare sempre nuovi stimoli per far diventare quella pratica sul tappetino Vita e significato significante per il mio quotidiano.

La mia curiosità

La frase di Françoise sulla torsione ha continuato a balenare in testa: ho iniziato a verificare che, in effetti, il lavoro in torsione accompagna tutta la nostra giornata, i nostri movimenti, le azioni da quelle banali a quelle più complesse. Poi, mi sono detta, anche i nostri pensieri lavorano in torsione, si avviluppano senza necessariamente diventare “vritti”, si concatenano e danno forma a ulteriori ragionamenti.

E, inseguendo questi pensieri, mi è balzato alla mente un testo molto caro, “Il segreto del fiore d’oro”, con commento di C.G.Jung.

L’ho letto più volte e mano a mano che procedeva il corso di approfondimento con gli insegnanti i yoga ho visto i limiti dei commenti di Jung, ma ho colto anche tante piccole assonanze che forse nemmeno lui sapeva di aver colto.

Il mandala

Una di queste ha a che fare con la torsione. Uno dei mandala che sono contenuti nel libro (tavola 8) parte da un neonato inserito nella sfera di luce e attorniato da un vortice di colori in torsione. Jung lo ha interpretato come “il bambino nella vescica germinale con i quattro colori fondamentali durante il suo moto rotatorio”.

Mi soddisfa anche questa definizione, ma ancor più vi ho trovato l’origine stessa del creato, del mondo che dir si voglia. Quel germe che, mitologicamente parlando, ha fatto scaturire quell’inizio da cui poi è derivato il mondo intero.

Perchè ho voluto fare questa sottolineatura?

Per me è semplice: non ha alcun significato mettersi sul tappetino a costruire forme, se non ci si sente parte di un unico grande moto che interessa tutti gli esseri viventi.

Yoga per me è appartenere a questo universo; nella mia forma umana, trovo consapevolezza maggiore quando, attraverso il respiro, l’attivazione del prana, la volontà, individuo la coscienza come un piccolo aspetto del Tutto. Molecole, non cerco altro, ma le stesse molecole dell’Universo.

Asana

di Dania Bicchierai

Significato di Asana

Asana significa “seggio”, “sostegno”: il termine condivide la stessa etimologia di “assiso”, a rappresentare il ruolo regale che la mente deve recuperare, posizionandosi sul suo trono da cui può osservare e gestire la sua “creatura”, ovvero il corpo.

Gli elementi fondamentali dell’Asana

Lo “Hatha Yoga Pradipika” afferma che:

Non può esistere Asana senza Dharana e Pranayama”.

In effetti nelle posizioni dello Yoga il corpo ha principalmente un ruolo di sostegno, in quanto esso costituisce il campo d’azione in cui Ha e Tha, la Mente e il Prana, possono avere una manifestazione concreta. L’Asana, quindi, è molto più di una semplice forma in cui “incastrare” il corpo: una posizione esterna rappresenta soltanto una cornice, che resterebbe vuota se fosse priva degli altri due elementi fondamentali, Dharana e Pranayama.

Dharana

Ciò che contraddistingue lo Hatha Yoga è il ruolo di comando e di presenza costante della mente. Ci sono due modi principali di utilizzare la mente nell’Asana:

– il primo è l’osservazione, ovvero lo stabile mantenimento dell’attenzione della mente su un oggetto ben preciso;

– il secondo è l’attivazione: in questo caso, la mente viene sollecitata con qualche attività, per esempio un Kriya, un percorso di prana, una visualizzazione ecc.

In entrambi i casi la mente non viene indirizzata in maniera casuale, lasciandosi attrarre da elementi diversi: è invece fondamentale che l’attenzione resti focalizzata sull’elemento scelto.

Pranayama

Nell’antichità gli Asana non erano stati concepiti per far bene ad un organo o ad una parte del corpo, bensì per attivare determinate potenze dentro di sé.

Il Prana è l’elemento della Vita che si manifesta nel corpo sotto molteplici forme. Prana è infatti tutto ciò che pre-anima la Vita, la sostiene e la promuove, caratterizzando un corpo vivo rispetto a un cadavere.

Come si esprime la Vita nel corpo

La Vita trova molteplici espressioni dentro di noi. Ecco alcune di esse, che dovrebbero quindi essere elementi immancabili di ogni Asana ben fatto:

  • Il movimento: un movimento armonico e ritmato porta la Vita, mentre uno caotico può anche consumarla e distruggerla. La staticità dell’Asana, inoltre, fa emergere il movimento interno che anima la posizione, ovvero la mobilità data dal respiro e la folgorante mobilità della mente. L’immobilità dell’Asana non è un bloccarsi e un irrigidirsi in una forma statica, bensì è la risultante della sospensione di un movimento perfetto: tutto il corpo resta mobile, pronto a riprendere in qualsiasi momento il movimento, così come la mente resta vigile e non si disperde.
  • Il ritmo promuove la ciclicità ed il continuo perpetuarsi della Vita: pensiamo al ritmo del respiro, al battito del cuore, all’alternanza di sonno e veglia, notte e giorno, ai cicli stagionali ecc. Ogni movimento prepara e induce il seguente, dando origine ad un continuum infinito.
  • Il calore, l’attivazione metabolica: ogni azione mentale effettuata, sia negli Asana che nelle meditazioni dell’Hatha Yoga, deve avere un effettivo riscontro sul corpo fisico, promuovendo lo scaldarsi e l’attivarsi del corpo stesso.
  • Il piacere: la Vita si crea attraverso il piacere: al contrario, il dolore distrugge la Vita, tanto nel quotidiano come negli Asana. Nello Yoga si ricerca pertanto la percezione del corpo attraverso il piacere. La propriocezione piacevole può essere stimolata, ad esempio, da un corretto stiramento che venga realizzato secondo la giusta misura: una stimolazione eccessiva produce disagio o addirittura dolore, mentre una stimolazione troppo blanda rende più difficoltoso il mantenimento della focalizzazione sul corpo.
  • La fluidità e la flessibilità, a livello mentale prima ancora che fisico. Ciò che si irrigidisce tende a degenerare e deperire.
  • Il Tapas, l’Ardore, l’eccitazione interna è uno dei principali elementi che favoriscono l’attivazione di Prana, a patto che l’elemento di eccitazione provenga dall’interno e non da qualcosa che non ci appartiene, altrimenti ne saremmo attratti e di conseguenza presi e schiavizzati, diventando passivi. Nello Yoga, invece, l’obiettivo è la completa liberazione.

Gli Asana, quindi, dovrebbero stimolare e migliorare l’attività vitale dell’individuo su tutti i piani: fisico, psichico ed emozionale.

Lo stato di Purna, ovvero la completezza, può essere conseguito tramite una corretta interazione con la Vita nel corpo, o comunque attraverso l’osservazione della presenza della Vita nel corpo.

Shakti

Il Prana ci caratterizza a livello individuale, ma ciascuno di noi non è isolato rispetto alla Potenza universale di cui facciamo parte e della quale rappresentiamo ognuno una piccola cellula. La Shakti, questa Potenza cosmica, è assimilabile alla forza della Natura, una potenza più grande di noi che ci alimenta e ci tiene in vita. All’interno degli Asana possiamo percepire la connessione con questa Potenza, con la quale siamo costantemente in contatto anche attraverso il semplice atto di respirare. Possiamo andare anche oltre la semplice percezione, imparando ad interagire con la Shakti e utilizzando Kriya e percorsi pranici per attingere a quella Potenza cosmica, per farla calare in noi, identificandoci in essa ed acquisendone i poteri.

Quando si impara a gestire intenzionalmente la Pranashakti, l’Hatha Yoga diventa veramente una pratica superiore, perché ci permette di realizzare pienamente le nostre potenzialità, e ci rende individui completi e fondati su noi stessi.

ŚAKTI E IL POTERE DELLA PAROLA

di Antonella Filippone

Per cercare di comprendere e definire l’entità di ŚAKTI, dobbiamo necessariamente partire dalla sua realtà di pura Coscienza, cioè da Śiva. Śiva, il Sé, è Śiva e Śakti: Śiva, la Coscienza, è concepito come potere dinamico; tale dinamismo (spanda) è chiamato Śakti. Questa qualità (fra le innumerevoli) è connaturata in Śiva e la rappresentazione iconografica di Ardhanārīśvara lo esemplifica: Śiva e Śakti sono uniti e compenetrati nella stessa Realtà (la Coscienza).

Śakti presiede funzioni differenti perchè può far conseguire differenti risultati, realizzandosi in diverse forme: Śiva è assolutamente libero di agire (o non agire) come vuole e questa libertà è proprio Śakti. Per esempio, Śiva si manifesta nella volontà, nell’intenzione (icchā), nella conoscenza (jñāna) e nell’azione (kriya), ma anche nella beatitudine e nella gioia (ānanda). La triade icchā-jñāna-kriya rappresenta il suo processo creativo: l’intenzione (senza sforzo) di ideare, immaginare e attuare il mondo si compie grazie a Śakti. E Śakti si distingue in particolar modo per:

  • potenza, forza;
  • potenza attualizzata, attività reale (kriya);
  • pensiero, attività mentale (vimarśa);
  • attività non condizionata, libertà di agire/non agire (svātantrya)
  • libera vibrazione (spanda).

Nella pratica dello Hatha Yoga, Śakti è Kundalinī (la potenza del serpente), simbolo forte e indiscusso della Coscienza primordiale che, fatta risvegliare nella conquista dei vari chakra, può intervenire a differenti livelli: come prānā, come jñāna, come parā (trascendente), come vāk (parola o linguaggio). Questa ultima, fondamentale, connotazione, richiama le dottrine tantriche sullo sviluppo del pensiero e della parola stessa: non possiamo pensare senza l’utilizzo del linguaggio. Pensiamo con e grazie alla parola, che può essere emanata foneticamente (articolandosi nel linguaggio concreto) o più in generale sonoramente (nāda, Śabda).

Dal momento che il mondo è una manifestazione della Śakti (nella libertà della Coscienza- Śiva) e questa può quindi essere intesa anche come vāk, è comprensibile che il mondo stesso sia, fra l’altro, una manifestazione di vāk.

Il mondo, il cosmo, è il risultato libero e spontaneo del dinamismo e della vibrazione di Śiva (attivati da Śakti), pura Coscienza, come abbiamo detto, che si attua sia nella parola interiore che in quella articolata. Lo Śabda (la forma “sonora” di Śakti) crea il linguaggio potenziale che, poi, ogni uomo rende vivente. Con vāk abbiamo i pensieri che ci permettono di essere consapevoli, di saper scegliere, di provare emozioni, di promuovere la psiche. Nell’Hatha Yoga vengono utilizzati, perciò, bīja-mantra (suoni archetipici) per esprimere, nei vari stadi di Coscienza, la potenza del suono, la forza di Śakti-Kundalinī che si modula con segni e articolazioni appropriati al chakra raggiunto (Lam, Vam, Ram, Yam, Ham, Om).

Nel nostro corpo si esemplifica al meglio questo aspetto sonoro e vibrazionale della parola, se pensiamo ai vari punti di articolazione fonetici presenti nell’apparato fonatorio: proprio nel collo (in cui si attua lo studio dello kshetram e del chakra Vishuddi) realizziamo il pensiero (che ovviamente si origina nella mente) attraverso movimenti di attrito e vibrazione, di apertura e chiusura che vanno a comporre i fonemi e quindi le parole. È la Śakti-Kundalinī che sinuosamente striscia nelle corde vocali e ci rende consapevolemente capaci di esprimere i pensieri, sapendo distinguere nella realtà le sue componenti duali.