Obiettivi e buoni propositi

(di Francesca Bonsignori)

Nel cammino verso un obiettivo si possono infatti presentare difficoltà e ostacoli di varia natura. Alcuni sono oggettivi mentre altri dovuti a fattori esterni, che non dipendono dal soggetto; altri, più insidiosi, prodotti dalla psiche, in particolare dalla componente emotiva (prāna), ancor più difficile da controllare. 

A questo punto entra in gioco l’intensità della determinazione di quanto l’obiettivo è stato posto come centrale e del saper gestire la nostra psiche, un aspetto centrale in tutte le forme di yoga.

L’importanza degli obiettivi

La scelta degli obiettivi rappresenta un elemento fondamentale per una buona qualità della vita poiché influisce quotidianamente sul nostro stato mentale, sull’umore e la vitalità oltreché sulla salute. 

Innanzitutto è bene avere degli obiettivi, perché maggiore è l’entusiasmo che ci spinge verso la loro realizzazione più elevata risulta l’attivazione vitale e psichica che coinvolge tutto il nostro essere il quale in assenza di obiettivi va a deprimersi. 

Il fenomeno depressivo risulta purtroppo evidente anche per le persone più giovani ed è correlato a uno squilibrio del sano svolgimento degli obiettivi quotidiani acuitosi durante il periodo pandemico. 

Ma l’obiettivo non è importante solo dal punto di vista psicologico, dal momento che coinvolge pienamente anche il piano fisiologico. 

Tutti noi siamo progettati per svegliarci la mattina e iniziare a muoverci, ad assumere atteggiamenti e gesti, a pensare a qualcosa da realizzare e ciò vale anche per attività semplici. In assenza di un qualcosa verso cui muoverci vivremmo per la gran parte del tempo in condizioni di inerzia e sedentarietà. 

In questo processo tutto l’organismo resta coinvolto e tanto più sono orientato e coinvolto nell’obiettivo più intenso è questo meccanismo virtuoso: soltanto in questo modo il sistema metabolico si può esprimere al meglio. 

Pertanto, prima ancora di entrare nello specifico della loro bontà, evviva gli obiettivi che attivano entusiasmo, giovinezza, espressione vitale. 

La qualità dell’obiettivo 

Dopo questa premessa, è utile pensare che l’obiettivo debba essere ben definito in ogni suo aspetto, compreso quello temporale; un buon obiettivo che si realizzi attraverso una serie di buoni propositi. 

È dunque opportuno domandarsi cosa si intenda per buon obiettivo in rapporto alla persona. La prima analisi andrà infatti costruita sulla specifica costituzione caratteriale e la qualità fisica e psichica oltreché l’età ed il vissuto; è importante comprendere tali fattori come unici e diversi per ciascuno. In più, la persona si trova a vivere un determinato contesto ambientale, sociale e familiare. La bontà dell’obiettivo deve tener conto della reale condizione della persona, onde evitare sogni irrealizzabili o percorsi di eccessiva salita. 

Su questo punto ci viene incontro l’antica scienza dell’Ayurveda, la quale sottolinea come la salute sia connessa alla realizzazione della propria natura e considera buono ogni obiettivo che rispetti questo elemento fondamentale. Tutto quanto concerne regole sociali, etiche e morali segue questo fondamento; seppur con qualche “correzione di tiro” opportuna alla società, il punto di partenza è individuale. 

L’adeguatezza dell’obiettivo 

Se l’obiettivo deve essere adeguato non può prescindere da un buon tempismo. 

La definizione di un obiettivo è svolta prima di metterlo a fuoco nel mirino e dedicarvi tutte le nostre attenzioni e forze. È noto quanto sia penalizzante fallire un obiettivo a cui si è dedicato tempo, forze, risorse, aspettative. 

Quest’ultime, le aspettative, sono un freno verso l’obiettivo. Esse salgono in intensità tanto più l’obiettivo non è corretto mentre si abbassano tanto più l’obiettivo è alla nostra portata. 

L’aspettativa è infatti un desiderio che rende i propositi poco concreti e sottrae forze alla parte operativa; essa distoglie l’attenzione della mente dall’operato e la conseguenza è la perdita della propria sana capacità di agire con vitalità. 

Il desiderio è tipico dell’età adulta e ci fa perdere la spontaneità che hanno i bambini. Questi ultimi quando si dedicano ad un’attività coinvolgono tutto il loro essere, con l’attenzione indirizzata solo quello a cui si dedicano nel preciso momento e hanno tutto il tempo a disposizione: in altre parole non hanno aspettative. 

La passione che mettiamo in quello che facciamo è la nostra alleata. L’atteggiamento ottimale è mettere passione senza apporvi desiderio. 

Lo yoga e i nostri obiettivi 

La chiarezza nel definire i nostri obiettivi, le strategie di realizzazione, i propositi adeguati sono elementi che evidentemente diventano centrali per uno yogin. 

Conquistare lo yoga vuol dire proprio diventare consapevoli della nostra mente; liberare essa da tutto quanto le impedisce di analizzare con chiarezza le situazioni significa attuare le scelte migliori al momento presente, ottenendo la costanza nel perseguimento degli obiettivi. 

Nel cammino verso un obiettivo si possono infatti presentare difficoltà e ostacoli di varia natura. Alcuni sono oggettivi mentre altri dovuti a fattori esterni, che non dipendono dal soggetto; altri, più insidiosi, prodotti dalla psiche, in particolare dalla componente emotiva (prāna), ancor più difficile da controllare. 

A questo punto entra in gioco l’intensità della determinazione di quanto l’obiettivo è stato posto come centrale e del saper gestire la nostra psiche, un aspetto centrale in tutte le forme di yoga. 

Yoga è interpretabile anche come realizzazione di un obiettivo, non potendo definire yoga una serie di esercizi fini a sé stessi e soltanto ordinariamente salutari. 

Tenere conto che per la legge delle probabilità una pratica yoga abbia degli effetti non assicura che tali effetti sono buoni per il soggetto, semplicemente in quanto non si tratta di attività sterili e determinate a priori. L’esercizio si rivela pratica di yoga quando è messo in relazione con il soggetto e mai quando rimane un’imitazione di quanto appreso da altri per imitazione esteriore. 

La costanza 

Un altro elemento legato all’obiettivo è la costanza e il buon proposito ne è dotato. Perseverare è la condizione essenziale per avere successo in tutto ciò che si fa, in qualunque campo e contesto che sia esso lavorativo, creativo, artistico, sportivo; 

le persone che hanno raggiunto traguardi importanti hanno perseguito con costanza indefessa l’obiettivo, orientando ogni particolare della quotidianità verso di esso. 

L’obiettivo prefissato è buono quando abbiamo la sicurezza di potervi dedicare una parte significativa della nostra vita. 

Dunque gli obiettivi da noi scelti sono buoni quando diventano fecondi ad ulteriori nuovi obiettivi che evolvono la nostra vita con ricchezza di passioni. Al contrario l’obiettivo sbagliato porta a sconfitte che bloccano tale slancio verso l’altro. 

Da tutto ciò appare evidente quanto sia importante la dedizione nel definire gli obiettivi giusti accompagnati da buoni propositi e riuscire a vivere con pienezza e soddisfazione la vita.

Yoga e Amore

«Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti.

[…]Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica.»

(di Francesca Bonsignori)

Yoga è conoscenza profonda di se stessi, una conoscenza finalizzata a gestire al meglio la nostra vita, per poterla godere pienamente in tutti i suoi aspetti. In particolare, nella visione tantrica è fondamentale quanto avviene nelle azioni concrete della quotidianità, dai pensieri, all’umore, alla salute. Armonizzare il rapporto con noi stessi e con il mondo nel vissuto di ogni giorno e ogni momento è quanto di meglio possiamo ottenere con lo yoga. Il livello del nostro benessere e felicità, quanto ci avviciniamo ad una condizione di armonia psicofisica, misura inequivocabilmente quanto conosciamo e sappiamo mettere in pratica lo yoga, ben oltre che nel fare soltanto degli esercizi su un tappetino.

Lascio da parte le forme ascetiche di yoga, fondate sulla mortificazione del corpo e della vitalità in favore di una vaga finalità spirituale che, ammesso che conducano realmente allo spirito, sono ben lontane dalla vita di gran parte di noi. Per dare concretezza ai nostri ragionamenti mi riferisco all’hatha yoga, fondato sulla filosofia tantrica, dove corpo, pranâ e mente sono coinvolti sinergicamente in ogni pratica. 

Analizzando in profondità le cose, emerge come tutte le forme di yoga considerino centrale la capacità di interagire con il piano emotivo in tutte le sue manifestazioni. Le forme ascetiche, mirando ad un simile scopo, impiegano il silenziamento o addirittura la soppressione delle componenti emotive.

Nell’hatha yoga si parla di controllo: sono infatti le disarmonie emotive che ci inducono a comportamenti nocivi per la salute corporea e per l’equilibrio psichico.

Quando mangiamo male, scegliamo stili di vita impropri, ci soffermiamo su pensieri distonici, effettuiamo delle scelte come banalmente guardare programmi che ci destabilizzano, è sempre preceduta una compulsione avvenuta sul piano emotivo.

Talvolta mentre stiamo agendo una parte di noi sa di sbagliare ma non può fare a meno di persistere nell’azione come se fosse guidata da altro che da noi stessi.

Dal momento che l’amore è l’emozione più forte che caratterizza la vita di tutti, possiamo affermare che yoga è gestire la regina delle emozioni: l’amore. Si parla dunque di hatha yoga come lo yoga degli eroi, e penso non vi siano dubbi sul fatto che cimentarsi con una potenza così grande come quella dell’amore sia proprio una faccenda eroica e che dunque lo yoga ci renda degli eroi.

D’altra parte lo yoga è un cammino arduo, a partire dalla comprensione di noi stessi, che richiede di abbandonare schemi, valori, e modalità usuali di considerare le cose.

La forza dello yoga non ha nulla a che vedere con la forza muscolare proveniente dall’allenamento da palestra, parliamo di ben altro.

Questi principi comprendono ogni valenza che vogliamo dare alla parola amore, da un coinvolgimento passionale verso una persona, un’attività, un progetto, verso lo yoga stesso che appassiona molti di noi. Ma anche amore per noi stessi.

Per procedere nel processo di comprensione è necessario prima di tutto chiarire che controllare un’emozione non vuol dire escludere un piacere dalla nostra esistenza. Teniamo conto del detto ogni piacere dura poco, e aggiungerei che il più delle volte l’esperienza di un coinvolgimento è dalle stelle alle stalle, e le stalle sono tanto più opprimenti quanto più ci in alto siamo andati, e siamo stati vicini alle stelle. Tanto più elevato è il livello di coinvolgimento passivo, tanto più sgradevole sarà il risveglio.

Nella vita ordinaria non sospetteremmo che tutto ciò possa essere anche un processo attivo. Sapersi appassionare, innamorare, godere di quanto la vita ci offre per uno yogin è una pratica attiva, che non parte dal farsi attrarre magneticamente da un qualcosa che ci fa innamorare bensì da un’azione di innamoramento.

Naturalmente la prima situazione è quella usuale, direi la sola concepibile per molti. Tant’è che in inglese innamorarsi si traduce come to fall in love, letteralmente cadere innamorati. La condizione attiva è quella che non soltanto non ci fa pagare il conto pesante che il “cadere innamorati” ci presenta, ma è anche quella opportunità che ci può portare a godere pienamente l’esperienza immensa e totalmente appagante dell’amore.

Un principio analogo lo troviamo rispetto al piacere per il cibo, un aspetto centrale per la nostra vita, assolutamente importante da gustare con equilibrio. Mangiare non è solo nutrimento, ma è un’attività basilare che coinvolge il nostro insieme psicofisico, che è necessario appagare e coccolare pienamente. L’amore per il cibo è essenziale per la salute a 360°.

Per ottenere il massimo dell’appagamento è importante come si mangia e non solo cosa mangiare. Anche in questo caso essere attivi e presenti porta ad equilibrio ed appagamento, mentre i nostri avversari sono la compulsività verso il cibo, così come le regole ferree che ci costringono a restrizioni o regimi di varia natura, relegandoci a comportamenti alimentari che non gratificano e che non è detto siano del tutto salutari.

Tutte le religioni impongono regole alimentari, in quanto la via del controllo e dell’equilibrio è la più difficile, riservata agli yogin che non necessitano di regole.

Allo stesso modo vengono imposte regole riguardanti l’amore e la sessualità, intese come forze ancor più difficili da gestire. La loro gestione richiederebbe di controllare delle prorompenti parti emotive, operazione già difficile per uno yogin, impossibile al di fuori dello yoga.

Questo aspetto è particolarmente approfondito dal Tantra, molto conosciuto come termine, ma solitamente male interpretato. L’obiettivo del Tantra è rimanere lucidi ed evitare il coinvolgimento nell’atto sessuale, pertanto trattasi di uno stato psichico molto arduo da raggiungere. Riuscire a mantenersi al di sopra dell’emotivo è qualcosa da gestire molto prima dell’emissione del seme, e comunque non riguarda la parte fisiologica, che è naturale portare fino in fondo, tanto al maschile che al femminile, quanto lo stato emotivo e mentale.

In definitiva, l’amore in relazione allo yoga rientra nell’ambito del prânâyâmâ (gestione del pranâ), dove l’amore è una forma di pranâ ben più potente delle altre.

Arrivare a tanto equivale a trovare la chiave per vivere la propria vita in piena felicità, piacere, benessere.

Le modalità pratiche sono diverse. La prima, la più importante, è la comprensione di come stanno le cose.

Arco – Dhanurasana

La posizione dell’Arco è una posizione potente che agisce a livello fisico, pranico, mentale, spirituale e terapeutico. Inizialmente è sufficiente praticarla anche solo in fase dinamica per ottenerne incredibili benefici, ma il massimo si raggiunge quando la si padroneggia e si riesce a tenere senza sforzo anche per varie decine di minuti.

Azione a livello fisico

L’Arco agisce potentemente sugli organi addominali. Nella fase dinamica, si effettua un vero e proprio massaggio dell’addome che rivitalizza l’intera zona, riscaldandola e rilassandola.

Nella posizione statica finale si attua una forte compressione intra-addominale che “strizza” gli organi ivi contenuti come una spugna, espellendo il sangue venoso e rimandandolo verso il cuore. Questa azione non solo consente di eliminare il sangue oramai depauperato di ossigeno, ma anche di “sgonfiare” gli organi stessi, facendo ritrovare ad essi, la propria forma originale e contribuendo a diminuire od eliminare la ptosi.

Una volta rilasciata la posizione, quegli stessi organi si andranno a riempire di sangue arterioso fresco, che li rivitalizzerà.

Azione a livello pranico

Rimanendo nella posizione in fase statica e continuando a respirarvi profondamente, si andrà a stimolare l’afflusso pranico in quella zona, che tenderà immediatamente a riscaldarsi e vitalizzarsi.

Questo farà aumentare tapas, il fuoco pranico interno che potenzierà la quantità di vitalità (Virya) contenuta in noi, contribuendo a far divenire il soggetto sempre più forte, potente e carismatico, tale da suscitare in chi lo circonda, un senso di rispetto.

Quanto più il praticante rimarrà in fase statica, respirando profondamente, tanto più diverrà potente, cioè ricco e ridondante di Prana-Shakti, la Potenza Pranica cosmica.

Azione a livello mentale

La posizione dell’Arco contiene in sé l’archetipo del guerriero (Virat) e, dunque, contribuisce a sviluppare quella parte marziale della mente che chiamiamo la volontà (Iccha).

Lo stesso sforzo fisico deve essere sostenuto tramite una forte e ferma volontà mentale, senza la quale il praticante cederebbe molto prima di quanto potrebbe.

Azione a livello spirituale

Il personaggio centrale della Bagavad-Gîtâ è Arjiuna, l’Arciere, il prototipo dell’uomo che va realizzandosi. Di conseguenza questa posizione contiene l’Archetipo della realizzazione più elevata che si realizza quando la freccia (della mente) raggiunge il suo bersaglio (il cuore), realizzando l’intuizione superiore.

E questa posizione, nel mentre la attuiamo con l’intento rivolto a questo fine, contribuisce a farci realizzare la nostra natura più profonda.

Azione a livello terapeutico

Questa posizione fa aumentare considerevolmente Agni, il fuoco digestivo che permette: di metabolizzare Ama, le tossine accumulate nei vari organi e tessuti, di migliorare la capacità digestiva, di aumentare la resistenza e la reattività alle malattie e, non ultimo, di digerire ogni forma di stress e tensioni mentali ed emotive provenienti dall’esterno.

Per ottenere tutto questo, si richiede una pratica più intensa dell’ordinario, dell’ordine di almeno 15 minuti.

Tecnica

Posizione di Partenza:

Distesi sull’addome, fronte a terra, braccia lungo il corpo con il dorso a terra, gambe e piedi vicini.

Rilassarsi profondamente, poi portare l’attenzione sul respiro, equilibrandolo tra inspirazione ed espirazione. Ampliarlo progressivamente, sentendolo spingere nell’addome e nella pancia. Massaggiarsi i visceri e gli organi interni tramite questo respiro addominale. Aumentarne progressivamente l’intensità e la potenza, mantenendo comunque un respiro calmo e profondo, sino ad arrivare a traspirare. Identificarsi completamente con il respiro.

Fase dinamica:

A questo punto, flettere e sollevare le gambe, portandole verso la nuca, in modo da permettere alle mani di afferrare le caviglie.

Inspirando, tiriamo le gambe con le braccia, facendole sollevare (foto 2).

Effettuiamo tre respiri profondi, poi, trattenendo, iniziamo a dondolare il corpo in avanti ed indietro, effettuando un profondo massaggio dell’addome (foto 3-4). Torniamo in fase statica e, volendo, dopo aver effettuato tre respiri intensi, possiamo ripetere una o più volte il movimento.

Presa della Posizione:

Rimaniamo nella posizione, migliorandola ad ogni respiro, tirando progressivamente con le braccia ed allentando le articolazioni coxo-femorali (foto 5).

Respiriamo intensamente, aumentando progressivamente in una prima fase la sola inspirazione, ed in una seconda anche l’espirazione.

Introduciamo, poi, al termine dell’inspirazione, dei momenti di sospensione a pieno, che cureremo di intensificare progressivamente, sino a raggiungere il massimo delle nostre possibilità, compatibile con il mantenimento di una espirazione agiata. Durante questa fase andiamo a migliorare la nostra forza e la nostra potenza.

A questo punto, se ci è possibile, introduciamo al termine dell’espirazione anche dei momenti di sospensione a vuoto, durante i quali cercheremo di intensificare e migliorare la posizione.

Manteniamo la posizione per almeno 3 minuti, con l’obbiettivo di raggiungere nel tempo i 10-15 minuti. In ogni caso, non arriviamo mai a stancarci, cioè al punto da alterare significativamente il nostro respiro o il nostro battito cardiaco. Se ancora non siamo in grado di mantenere nemmeno i 3 minuti, allora, torniamo a terra ed effettuiamo l’esercizio una seconda o, se è il caso, una terza volta.

Ritorno dalla Posizione:

Torniamo lentamente verso terra, effettuando un’espirazione particolarmente lenta, che duri almeno due volte l’espirazione che abbiamo utilizzata nella posizione, meglio se ancora più lunga.

Ci distendiamo sull’addome (foto 6), nella posizione del Coccodrillo (Makarasana), portando i gomiti in avanti ed incrociando i polsi sotto la fronte, divaricando le gambe ed i piedi, con i malleoli interni che poggiano a terra.

Abbandoniamoci completamente alle sensazioni residue, lasciando che la nostra intelligenza del corpo “digerisca” quanto effettuato. Il respiro è spontaneo e leggero. La mente vigile è neutra e distaccata, in quanto tutto deve essere gestito dalla mente corporea.

Quando sentiamo di aver metabolizzato il tutto, effettuiamo una profonda ispirazione, tratteniamo a lungo a pieno, poi, effettuando un intenso sospiro, ci apriamo all’esterno, ritrovando la posizione seduta a gambe incrociate (Sukhasana) (foto 7).

Rimaniamo ad occhi aperti, gustando gli effetti residui che continuano a manifestarsi in noi, senza giudicare, né interpretare quanto sta avvenendo, ma, semplicemente, vivendo le sensazioni.

Roberto Laurenzi

Cobra – Bujangasana

Tecnica

Posizione di partenza:

Ci distendiamo proni, con le braccia lungo il corpo. Gambe unite, piedi uniti. Rilassiamo tutto il corpo, cercando di eliminare ogni tensione parassita. Abbandoniamoci completamente alla posizione, cercando di sentire la pesantezza del corpo, in modo da rilasciare l’intero apparato muscolare. Portiamo la nostra attenzione sulle zone ancora tese, in modo da neutralizzarle.

Portiamo ora la nostra attenzione sulle articolazioni, decontraendole. In particolar modo curiamo le articolazioni coxo-femorali e quelle del cingolo scapolare.

Percorriamo mentalmente più volte la nostra colonna, dal basso in alto e dall’alto in basso, cercando di percepire ogni vertebra, allentandone le tensioni muscolari, anche attraverso l’espiro.

Una volta ottenuto lo stato di rilasciamento ottimale, concentriamoci sulla respirazione, equilibrandola e rendendola spontanea e naturale.

Quando il flusso respiratorio si è stabilizzato, andiamo progressivamente ad aumentarlo, eventualmente utilizzando l’ujjayi.

Quindi facciamo scorrere mentalmente questo respiro potenziato lungo la colonna (cervicali comprese). Successivamente portiamolo alle articolazioni coxo-femorali.

Presa della posizione:

Portiamo i gomiti a terra, all’altezza delle spalle.

Inspirando, ci solleviamo da terra, inarcando la colonna, e solleviamo il tronco e la testa, senza arrivare al nostro massimo.

Espirando, torniamo lentamente a terra, con lo stesso tempo dell’inspirazione.

Effettuiamo più volte questo movimento dinamico.

Quindi stringiamo i gomiti, poggiandoli a terra sotto le spalle, e rimaniamo in fase statica, nella posizione della Sfinge.

Curiamo di inarcare il più possibile la colonna all’altezza delle scapole. Tiriamo indietro il mento, facendolo poggiare sulla gola, e cerchiamo di tirare indietro il più possibile il collo, cercando di portare il viso in posizione frontale (perché, tendenzialmente, tende a guardare verso il basso, in conseguenza di scarsa mobilità tra le scapole).

Respiriamo profondamente, cercando con ogni respiro di mobilizzare al meglio la colonna, soprattutto a livello scapolare e della settima cervicale. Allentiamo le tensioni nella parte anteriore del collo, liberando le clavicole.

Con una profonda e lenta espirazione, torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo le mani a terra, collocandole all’altezza delle spalle, effettuando più volte il medesimo movimento sopra descritto. In fase statica, respiriamo profondamente, inarcando sempre meglio la colonna ad ogni respiro. Quindi torniamo a terra, rilasciandoci per alcune respirazioni.

Portiamo, ora, le mani all’altezza delle costole fluttuani (se siamo molto sciolti, al’altezza della vita) e ripetiamo alcune volte la fase dinamica.

Dopo cinque o sei movimenti dinamici, raggiungiamo la fase statica, rimanendo nella posizione finale.

Facciamo scorrere più volte il respiro lungo la colonna, migliorando ogni volta la posizione.

Concentriamoci ora nel petto. Portiamoci il respiro, facendovelo espandere. Il respiro diviene sempre più intenso e ci porta ad espandere progressivamente il torace in avanti. Contemporaneamente andiamo ad allentare le tensioni intercostali ed il nostro torace diviene sempre più sciolto e mobile.

Portiamo, ora, la nostra attenzione respiratoria tra le scapole, inviandovi una sempre maggiore quantità di aria ad ogni respiro, inarcando sempre più questa zona.

Spostiamo, la nostra attenzione all’interno dello spazio tra le sopracciglia, e respiriamovi con sempre maggiore intensità, sino a raggiungere uno stato di euforia.

Abbandoniamo momentaneamente il respiro controllato, lasciandolo alla spontaneità conquistata, ed andiamo a controllare e rilasciare ogni tensione corporea, concentrandoci soprattutto: sui glutei, sugli sfinteri, sulle gambe, rilasciando al massimo ognuna di queste parti.

Pratica di potenza:

Torniamo, ora, a concentrarci sul respiro, amplificandolo progressivamente.

Raggiunto il massimo respiro equilibrato, immaginiamo che l’aria che entra in noi sia permeata di luce.

Seguiamone mentalmente il percorso lungo le narici, sino ai sinus frontali, dietro le sopracciglia, ed assorbiamo in questa zona questa Potenza Luminosa (Prakasha Shakti), sino a sentire che emettiamo luce dal Terzo Occhio.

A questo punto, continuando a percepire la luminosità tra le sopracciglia, conduciamo il respiro permeato di luce nei polmoni, riempiendoli anch’essi di Potenza Luminosa, sino a sentire che questa si espande al centro del petto, irradiandosi verso l’esterno.

Mantenendo anche questa seconda percezione, portiamo il respiro permeato di Potenza Luminosa lungo tutta la colonna, sino a che anch’essa sia interamente imbevuta ed irraggi luminosità.

Distacchiamoci dall’attenzione sul respiro, che continuerà spontaneamente, e concentriamoci sulle tre zone che stanno irradiando Potenza Luminosa, realizzando entro di noi l’espressione vivente di questa Potenza.

Stacchiamoci anche da questa attenzione, preparandoci ad abbandonare la posizione. Queste tre zone continueranno, comunque, ad irraggiare luminosità spontaneamente, ancora per parecchio tempo.

EFOA International

Uscita dalla posizione:

Solleviamo il mento, inarcando il capo all’indietro e, contemporaneamente, solleviamo le gambe alla verticale, flettendo le ginocchia, che rimangono saldamente a terra. Rimaniamo in questa posizione per alcune respirazioni. Poi riportiamo le gambe a terra, rilasciandole, e facciamo scendere la testa, lasciando che prenda la sua posizione naturale per la nostra conformazione strutturale.

Quindi, portiamo la nostra attenzione sulle mani e sulla forza con cui poggiano a terra. Sostenendoci adeguatamente, effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo e, espirando lungamente, torniamo a terra con estrema lentezza, abbandonandoci completamente.

Allunghiamo le braccia oltre la testa, fronte poggiata a terra, nella posizione della Prosternazione, e lasciamo andare alla pesantezza, abbandonando ogni tensione, ogni attenzione, ogni pensiero, lasciando che l’Intelligenza del Corpo metabolizzi quanto effettuato. Rimaniamo in questo stato di torpore, il tempo che riteniamo necessario.

Poi, lentamente, ci portiamo in posizione Seduta (Sukhasana).

Qui riviviamo le sensazioni residue, godendo del riverbero luminoso delle tre zone che ancora andrà manifestandosi.

Rimaniamo in questa condizione tutto il tempo che riteniamo gradevole, quindi effettuiamo una profonda inspirazione, tratteniamo a lungo, e, tramite un profondo, intenso e liberatorio sospiro, ci apriamo all’esterno.

Roberto Laurenzi

Pranayama l’arte di far fare un asana al respiro: Il Samavṛtti Prāṇāyāma

Il termine sanscrito pranayama è composto da due parole: prana e ayama.

Prana significa “forza vitale” (da pra- “davanti, verso, promuovere” e na “respirare”; ayama significa “estensione”, “espansione”, “controllo”): quindi pranayama può essere tradotto letteralmente come “espansione della forza vitale”.

Nel pranayama, il corpo è utilizzato come supporto, ma non è la parte più significativa, in quanto è la mente che agisce ed attiva ciò che vogliamo realizzare. La mente per rapportarsi al corpo usa il veicolo del prana, attivandosi per immagini percettive.

Nell’Hatha yoga viene utilizzata un asana cioè una forma fuori dall’ordinario (non solo fisica, ma anche respiratoria), dove il ritmo respiratorio ordinario viene alterato, al fine di ottenere particolari stati fisici/mentali volontari. Quando la mente, usando il prana si convoglia verso il corpo, riesce a somatizzare ed assumere le forme desiderate. La parola somatizzazione non ha una valenza negativa: nella pratica yogica possiede un obiettivo positivo, cioè quello di imparare a gestire e a costruire delle forme volute in modo attivo. Si crea e si fortifica una potenza, quella interiore, basata su tre elementi: Jnana /conoscenza, iccha /volontà, shakti /potenza.

Ciascuno di questi tre elementi, se presi separatamente, non fanno raggiungere all’individuo lo scopo prefisso. L’obiettivo della persona nello yoga così come nella vita, è quello di esprimere appieno le sue potenzialità di vitalità di cui è donato dalla nascita.

Il pranayama si realizza attraverso dei ritmi particolari in quanto anche la vita è un ritmo.

Di solito una respirazione lenta, regolare o ritmata porta ad uno stato di calma e di relax; una respirazione rapida crea un effetto stimolante e rivitalizzante in tutte le parti del corpo, mentre il solo equilibrare il flusso del respiro nelle narici porta ad uno stato di equanimità.

Quando, inoltre, prendiamo coscienza degli aspetti del respiro e del prana siamo più consapevoli e sensibili.

Nelle diverse fasi del giorno, ognuno di noi può sentire la necessità di aumentare il proprio livello di forza vitale o il bisogno di staccare e creare uno stato rilassato, calmando i movimenti della la mente: con le tecniche di pranayama è possibile venire incontro a queste esigenze, scegliendone di volta in volta una specifica e adatta a quel particolare risultato che vogliamo ottenere. Ad esempio di mattina, dopo una nottata di riposo ci può essere la necessità di una carica per iniziare la giornata con maggior vitalità e serenità. Di pomeriggio, dopo aver dedicato svariate ore alle nostre attività di lavoro o studio, c’è il bisogno di portare uno stato d’armonia ed equilibrio in tutto il corpo. La sera si ha bisogno invece di calmare e rilassare mente e corpo.

Un’ottima tecnica per portare uno stato di armonia e vitalità è Samavṛtti Prāṇāyāma: Samavṛtti pranayama crea una grande sensazione di equanimità, in quanto il suo ritmo è quello che è in relazione all’elemento terra (Pritthvi) appartenente al Muladhara Chakra (mula, radice; adhara fondamenta). “Sama” significa “sempre uguale, bilanciato” e “Vṛtti” vortice, senza inizio e senza fine. La pratica calma la mente e rilassa il sistema nervoso, bilanciando la forza vitale.

La tradizione yogica divide il ciclo respiratorio in quattro fasi:

  • Inspirazione (puraka),
  • Espirazione (rechaka),
  • Ritenzione del respiro dopo l’inspirazione o ritenzione a pieno (antara kumbhaka),
  • Ritenzione del respiro dopo l’espirazione o ritenzione a vuoto (bahya kumbhaka)

Nella respirazione ordinaria, queste quattro fasi hanno normalmente durate differenti tra di loro.

Il ritmo di questa respirazione è 1.1.1.: ecco perché è usualmente chiamata la “tecnica del respiro quadrato”. Nella nostra mente possiamo immaginare effettivamente un quadrato. L’inspirazione sale lungo il lato sinistro del quadrato, durante la ritenzione interna la consapevolezza si muove lungo il lato superiore del quadrato; l’espirazione discende lungo il lato destro; durante la ritenzione esterna portiamo la consapevolezza lungo il lato inferiore del quadrato. Questa è una respirazione completa. Quindi sia le fasi di inspirazione che espirazione, sospensione a pieno e a vuoto, hanno la stessa durata. Insieme alle sospensioni è utile mettere in atto il “TrayaBandha”:

  • contrazione del perineo a fine espirazione e a fine inspirazione: Mula Bandha
  • chiusura della gola a fine espirazione e a fine inspirazione: Jalandhara Bandha
  • pressione verso l’interno dell’addome durante la sospensione sia a polmoni vuoti che a polmoni pieni: Uddiyana Bandha

Prima di eseguire questa tecnica (come qualsiasi altra) è utile effettuare una pratica corporea propedeutica per ottenere i massimi benefici, in quanto il corpo e la mente preparati sono più idonei a ricevere gli effetti del pranayama. Una particolare attenzione va alle narici, che devono essere purificate e, durante la pratica, devono essere controllate coscientemente permettendo all’aria di entrare nel corpo più facilmente.

E’ poi importante, concludere l’esercizio, riducendo progressivamente il ritmo adottato per non creare una frattura respiratoria. E’ lo stesso principio per cui usciamo da una forma corporea in modo graduale per non sentire disagio. Mentre il corpo ci avvisa che qualcosa non va con sensazione di dolore, il respiro non ha modo di farlo, ma sicuramente pagheremo le conseguenze di una uscita repentina “dall’asana respiratorio” con disagi a livello psichico.

Al termine della pratica si respira liberamente, ma sempre con calma e consapevolezza. Per qualche momento, è importante portare a livello percettivo i risultati ottenuti e soffermarsi a godere degli effetti che questa tecnica ha sviluppato in termini di armonia ed equilibrio sia a livello fisico, che a livello mentale. Respirare è un atto così naturale, così spontaneo che raramente le persone si rendono conto di quanto sia prezioso.

Prendere coscienza della respirazione, respirare in modo corretto e successivamente poter controllare tale atto, ci dona delle risorse vitali inimmaginabili che possiamo comprendere solo con l’esperienza diretta.

GLI KSHETRAM E LA PRATICA DELL’HATHA YOGA

di ANTONELLA FILIPPONE

La parola KHESTRA significa “campo, sfera di attività”, ma anche “corpo” inteso come campo di esperienza o di azione (Glossario di Sanscrito, Mother Sai Publications). Lo KHESTRAM, nell’ambito letterario e filosofico, è la vasta distesa di terra (una pianura vicina a Hastināpura, l’attuale New Delhi), scenario di battaglia dei Kuru, cioè degli eserciti comandati dai Pāndava e dai Kaurana, di cui si narra nel poema epico del Mahābhārata. Questo termine, quindi, ha a che fare con una dimensione materiale, visibile, identificabile, che possiamo conoscere e su cui possiamo agire. Nell’iconografia tradizionale, lo khestram ha la forma di un quadrato, come una scacchiera, suddivisibile al suo interno in altrettanti piccoli riquadri già determinati. Gli uomini, appartenenti ai quattro varna (colori, caste sociali) si dispongono nelle caselle della scacchiera, a seconda dell’ampiezza dei propri orizzonti e dei propri ruoli. Così, il filosofo (brahmano) si potrà muovere in un quadrato composto da 81 caselle; il guerriero (kshatriya) si muoverà in una scacchiera di 64 riquadri; il mercante (vashya) ne avrà a disposizione 49; il servo (shudra) rimarrà confinato nel suo unico piccolo quadrato.

brahamano kshatriya vashya shudra
comprensione maggiore della Realtà

Ognuno vivrà nella propria forma, spesso senza scoprire gli altri spazi a disposizione, anche all’interno della sua stessa scacchiera, fino a quando non riuscirà a praticare lo yoga della potenza che lo libererà dalle sue prigioni e dai suoi ostacoli. Fra le abilità sviluppate dallo hatha yoga, vi è senza dubbio quella della consapevolezza, dell’attenzione (jagrat) che portano a moltiplicare i nostri spazi, cioè a percepire tutta la scacchiera e ad abbandonare i condizionamenti che ci imprigionano nei vari ruoli.

Nella pratica dello yoga, seguendo questi principi, andiamo a fortificare e ad affinare una percezione più completa e profonda del nostro corpo (lo khestra), riuscendo a unire via via elementi ed aspetti prima sconosciuti, estendendo quindi le nostre potenzialità. Queste ci consentiranno di sentire e di considerare il corpo stesso come un’entità unica (il nostro quadrato del sole).

Eventualmente, dopo questa prima evoluzione, saremo pronti a superare lo stato materiale per scalare la Montagna Sacra (Monte Meru): incontreremo, nel percorso di presa di coscienza (e non più solo di consapevolezza, come attuato precedentemente) i 6 chakra che ci faranno illuminare dall’alto la condizione limitante in cui eravamo rinchiusi.

LA PRATICA

Gli khetram identificabili nel tronco sono cinque: ne presentiamo due che riguardano Manipura Khestram e Anahata Kshetram. Ovviamente queste pratiche saranno precedute da alcune fasi di preparazione e di purificazione respiratoria.

MANIPURA KSHETRAM (nella zona dell’ombelico e nella seconda lombare)

  • SETHUASANA (per favorire la forza del diaframma sulla mobilità lombare)
  1. Nella fase dinamica, inspirando portiamo in alto il bacino, utilizzando la spinta dei piedi; espirando, riportiamo la schiena a terra, appoggiando le vertebre una dopo l’altra.
  1. Nella fase statica, una volta che siamo riusciti a salire nella posizione con una respirazione adeguata, manteniamo sethuasana con l’aiuto delle mani sotto la zona lombare, percependo il movimento della respirazione sulla colonna vertebrale.
  • DHARMIKASANA (per favorire, fra l’altro, la consapevolezza dell’addome nella respirazione e l’allungamento della colonna)

Nella posizione (con le ginocchia divaricate), dovremmo percepire lo spazio dell’addome ampio e in movimento e come questo si possa riflettere anche sulla colonna. Nella fase di rientro, comminando indietro con le mani, cerchiamo di sentire come adesso il respiro porti una nuova linfa in questa zona del corpo.

ANAHATA KSHETRAM (al centro del petto e fra le scapole)

  • MARYCHIASANA (per favorire la mobilità della gabbia toracica e la consapevolezza del movimento respiratorio delle scapole e del dorso)

Nella fase statica (per esempio, nella variante con una gamba allungata) è importante la posizione delle braccia che allargano la zona posteriore della schiena, nel dorso: lì dovremmo portare la nostra attenzione, osservando il movimento respiratorio del torace.

VRITTI ARDHA BHUJANGASANA (per distendere la colonna, sciogliere le anche e le spalle, percepire la mobilità respiratoria del torace)

  1. Nella prima variante, l’inspirazione, aprendo il torace, porta il braccio in apertura. Nell’espirazione, avremo cura di non lasciare questa sensazione, riportando la mano a terra.
  1. Nella seconda variante (in cui le mani si intrecciano dietro la schiena) cerchiamo di focalizzare la nostra attenzione sempre sul torace che si apre naturalmente.

Quando lasceremo la posizione, sedendoci in Vajrasana, andremo a sentire come tutta l’area anteriore e posteriore del torace si sia rivitalizzata e come il respiro vi fluisca naturalmente e profondamente.

INDIVIDUAZIONE E CAPACITA’ DI STARE DA SOLI NONOSTANTE LA MASSA

di Paola Cosolo Marangon

La necessità di individuazione è una necessità naturale; infatti la inibizione dell’individuazione da parte di un preponderante o esclusivo adeguamento ai principi della collettività significa una compromissione dell’attività vitale individuale “

C.G.Jung, Tipi psicologici, Newton Compton editori, Roma, 1993, pag361

Jung pone una questione essenziale nella maturazione della consapevolezza di sé, c’è una necessità di individuazione che risulta sempre più difficile anche se assolutamente necessaria. Non essere consapevoli di un proprio sé, non sapere stare dentro la propria pelle e la propria storia, spesso cercando di fuggire per aderire a mondi diversi e “altri”, è una componente sociale e umana ricorrente negli ultimi anni.

Come ci sollecita lo psicanalista, però, questa individuazione è fondamentale e il percorso, la pratica yoga, può aiutare a raggiungere questo stato i consapevolezza del sé.

PINO O ABETE?

La metafora che ci è stata proposta del pino, come albero che sa bastare a se stesso, fa il suo effetto: si tratta di un albero imponente che tende verso il cielo e non ha paura della solitudine. L’edera non lo attacca perché i suoi aghi sono acidi e il terreno attorno diventa impossibile per la vita di qualsiasi altra pianta.

A dirla tutta io amo di più gli abeti, che tutto sommato sanno stare da soli e non vengono infestati, ma che sono anche più capaci di stare in gruppo, di condividere uno spazio, intrecciando le loro radici per sostenersi a vicenda. L’abete è più comunitario, il pino un po’ più narcisista. E poi gli abeti appartengono a tradizioni nordiche più affini al mio essere. Ma questa è un’altra storia.

Alberi e preferenze a parte, l’archetipo del pino richiama 3 punti fondamentali del saper/poter costruire il proprio posto nel mondo.

Nel momento in cui si riesce a trovare il proprio radicamento, il fulcro del proprio essere e la capacità di scegliere/orientare i propri pensieri, penso si possa dire di essere molto vicini alla realizzazione di un obiettivo fondamentale: essere sé stessi.

CONSAPEVOLI DEL PROPRIO STARE AL MONDO

Essere sé stessi, consapevoli del proprio saper stare al mondo, senza cedere all’impulso di seguire la marea come un gruppo di pesciolini trascinati dalla corrente, è una bella sfida.

Il respiro ci rende consapevoli di un corpo che trova il suo radicamento, per essere sempre presenti nel qui e ora, capaci di affrontare tutto ciò che la vita ci pone davanti.

La Shakti è quella potenza/forza che rende capaci di stare nella vita a testa alta, sapendo gestire la propria emotività, senza paura di incappare in percorsi tortuosi.

Nella pratica, dovremmo indirizzarci verso la possibilità di trovare 3 punti base su cui orientare la mente per attivare il prana. Come abbiamo visto nella proposta legata al pino, orientare il respiro e l’intenzione dell’asana verso la base, con il radicamento del bacino, con l’appoggio fondante a terra, è un punto di partenza che non deve appartenere solo al tempo che spendiamo nel tappetino.

Se riesco a considerare sempre il mio radicamento, la mia appartenenza alla terra che mi sostiene, e sulla quale so di poter contare, difficilmente avverrà un’individuazione certa: è necessario, piuttosto, un processo conscio di differenziazione, è necessaria appunto l’individuazione.

Il sostegno della terra è la prima parte per questo percorso che può farci dire “io ci sono, sono forte, credo in me stessa”.

Il secondo punto saliente è la creazione del kanda dell’addome: anche qui abbiamo la necessità di sentire che c’è un vuoto e un pieno, un fulcro centrale che ha la facoltà di farci sentire centrati. Riconoscere il centro del proprio essere è sapere di poter stare dentro un equilibrio che non è virtuale ma reale: protagonista è il respiro portato giù fino al perineo e poi fatto concentrare all’interno dell’addome, dove si riscontra un calore che nasce da dentro, fornisce forza e potenza. Una forma di Shakti che va a confermare un radicamento e un desiderio di sostenere un IO in maniera profonda.

L’ ultimo passaggio è salire per confermare la capacità di stare dentro un mondo dei pensieri, espandere il torace, perfezionare l’apertura del costato e consentire al corpo di rispondere alla possibilità di ampliare i propri orizzonti.

TRE SPAZI VUOTI

A quel punto la proposta della pratica è generare tre spazi vuoti. Senza il pieno non si può assaporare e concepire il vuoto. Senza essere passati per la consapevolezza di un pieno non si può creare il vuoto.

Dopo aver sperimentato il pieno arriva il momento per una consapevolezza mentale, una centratura che si allinea fino a ritrovare, grazie all’archetipo del pino, il sottile significato di un asse. Tale asse aiuta a stare dentro una sintonia globale, a sviluppare Merudanda, in cui riconosciamo la saldezza e la profondità, la centratura e la sicurezza. L’archetipo del pino, nella pratica dello yoga, può condurre a percepirci individui, riconoscendoci diversi ma connessi con i propri bisogni e con la propria umanità; questa pratica dà la capacità di nutrire psichicamente la vita stessa, sentendoci parte di un Tutto che trova il suo significato nel riconoscimento della Pace e dell’armonia.

IL RESPIRO, UNA PIACEVOLE SCOPERTA

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Da quando ho iniziato a frequentare la scuola EFOA, la cosa che più mi ha colpito sin dalla prima volta è stato realizzare quanto fosse fondamentale l’atto del respiro nello Yoga. Quanto ho appreso! e quanti esercizi eseguiti! Sono venuta a conoscenza di un nuovo mondo “del Respiro”.

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Conoscere Prana e gestirlo: gestire la nostra Vita

di Fiammetta Ghietti

PRÂNA

Nel primo incontro abbiamo iniziato a parlare del prâna, concetto filosofico con cui si intende ciò che ci mantiene in vita, dunque una potenza (shakti).

Secondo l’Hatha Yoga infatti senza questa componente essenziale il corpo sarebbe cadavere e non avremmo alcun pensiero, la mente.

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TESTA LIEVE IN RESPIRO LIBERO

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La mobilità toracica

Nella terza lezione dell’annualità di Pranayama di Bologna Francoise ci propone una sequenza sulla percezione della mobilità toracica attraverso l’utilizzo del diaframma.

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