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PRĀNĀYĀMA E HATHAYOGA

Lug 14, 2018 | Pranayama

di Antonella Filippone

Pranayama e Hathayoga

“Quando il respiro è instabile, la mente è instabile; quando il respiro è stabile, la mente è stabile e lo yogin raggiunge la stasi” (Hathayogapradīpikā).

Una delle verità più grandi

L’assioma riportato rappresenta, a mio avviso, una delle più grandi verità esperibili in chi pratica hatha yoga: se riesci a capire come si articola la più importante e vitale funzione del nostro corpo, riesci a capire contemporaneamente le potenzialità della mente, le sue qualità, la sua immensa forza creatrice, tutto si lega e si sostiene nella nostra respirazione, nella nostra capacità di osservazione attenta e dettagliata di questo veicolo, di questo insostituibile meccanismo che ci tiene in vita, qui e ora.

Già… dovrebbe essere ovvio che chi pratica hatha yoga conosca al meglio le caratteristiche della respirazione: frequentando l’annualità di prānāyāma, mi sono resa conto che in realtà non è proprio così.

Ci sono moltissimi e preziosissimi aspetti, che stiamo studiando, che vanno ad arricchire sempre di più le mie conoscenze e le mie abilità.

Uno di questi è senz’altro la riflessione, necessaria, sulla parola hatha e sulla parola prāna: senza capire questi due termini fondamentali, non riusciamo davvero a esperire lo yoga nella sua forma originale, quella inserita all’interno delle immense e profonde tradizioni tantriche.

Hatha

Hatha vuol dire forza, potenza: è la condizione imprescindibile dell’Uomo, dell’Eroe, dell’essere virile che conosce la realtà, che sa dominarla, che apprezza la vita e la esalta, che si eccita grazie al suo ardore (tapas, termine fondamentale che richiama alla mente scenari di fuoco, ghiacci che si sciolgono, visioni di carri celesti, soli incandescenti e cuori coraggiosi), che ha padronanza di sé, della propria salute e della propria mente, riuscendo a gestire e sviluppare tutte le abilità conoscitive di cui è dotato; le passioni, le emozioni e i pensieri si esprimono coscientemente, in chi possiede hatha, in modalità respiratorie e fisiche consapevoli, nell’intento di perseguire e aumentare proprio il piacere di questa esaltazione.

Ecco, quindi, che la gestione del respiro e le tecniche di prānāyāma diventano essenziali per questo tipo di eroe, per la sua posizione all’interno dell’universo: attraverso di esse, è possibile, infatti, favorire la consapevolezza e l’interiorizzazione. Ma il respiro non è solo prāna… e prāna non è solo il respiro…

Che cosa vuol dire allora prāna?

Forse sarebbe necessaria una lunga (quasi infinita) introduzione storica su questa parola chiave, non solo per lo yoga, ma per molta parte della filosofia indiana: sappiamo che il termine prāna compare già nella letteratura vedica e vedanta a indicare qualcosa che va oltre il semplice atto respiratorio umano, considerato come una forza e una divinità, un principio cosmico.

Nella parte più interna e intima dell’uomo, come riportano alcuni testi delle Upanishad, si troverebbe una dimensione, ātman, che è in collegamento con il prāna: etimologicamente, le due parole appartengono alla stessa radice an-, che significa “spirare”, “soffiare”.

Quindi, la nostra “anima” (ātman/psyché) rimanda al soffio vitale, alla vita, a questo elemento fondante del cosmo.

Più tardi, nei testi tantrici, quelli che includono la tradizione dello hathayoga, si affronta il tema del prāna e si analizza soprattutto la dualità fisica della nostra respirazione, nel tentativo di conoscerla e armonizzarla grazie a una serie di tecniche che lo yogin deve praticare consapevolmente.

Lo yogin tantrico, quindi, studia, osserva, vede (vidyā) la propria respirazione come uno dei veicoli di prāna, come un nutrimento per il corpo e la mente allo stesso momento, come un meccanismo vitale che si può sentire e gestire ai fini del potenziamento, della forza (hatha), della presenza vitale in questo mondo.

Lo yogin si rende conto, questa è una sua precipua caratteristica, che senza la conoscenza e il controllo di prāna non c’è yoga e dunque non esiste la mente, non esiste la vita, non esiste il cosmo.

Praticare prānāyāma è perciò realizzare lo yoga nella sua forma più vera, cioè essenziale: far lavorare la mente per conoscere in modo attivo la vita.

Ujjayi

Fra le tecniche che stiamo studiando in questo periodo, mi ha molto interessato quella dell’Ujjayi, cioè “ciò che si esprime ad alta voce”, “ciò che porta al successo” (dal prefisso ud- che indica elevazione, cammino verso l’alto, su, al di sopra di): il blocco parziale della glottide che frena l’aria in entrata e in uscita; in questa pratica, la frizione dell’aria genera un suono sordo e continuo.

Gli effetti sono notevoli: l’attività mentale va a interiorizzarsi, perché dirigiamo la nostra attenzione sia sul passaggio dell’aria attraverso le narici, sia sul rumore continuo che produce il nostro respiro; per questo, Ujjayi ci aiuta e ci sostiene in modo eccellente anche durante la pratica degli āsana.

L’aumento e la diminuzione di pressione, che avvengono durante questa tecnica, mantengono una buona elasticità del tessuto polmonare; inoltre si regola la portata dell’aria e questo ovviamente influisce sulla nostra attività fisica.

Se riusciamo a regolare, armonizzare e possibilmente allungare il nostro respiro, avremo una migliore qualità e lunghezza di vita.

Quindi, l’eroe, lo yogin tantrico può servirsi dell’ Ujjayi proprio per controllare e potenziare le sue abilità sia direttamente nella zona fisiologica preposta (gola, glottide, corde vocali, collo, naso… spesso soggetti alla somatizzazione di emozioni e paure) sia nella sfera mentale, perché la concentrazione si indirizza verso l’udito (una delle facoltà sensoriali più difficili da controllare): il rumore che si produce durante l’ Ujjayi è quello del nostro respiro, è quello ci appartiene, è quello che precede e sostiene l’emissione dei suoni, è quello che può articolare il linguaggio (dunque rendere attuabili i nostri pensieri).

Il movimento del respiro è qui, in questa dimensione vitale, come una musica che culla la mente, come una sinfonia primordiale, come un richiamo ancestrale: il guerriero tantrico se ne serve per calibrare le forze, per rendere armonioso e disteso ogni suo pensiero.

E, a livello filosofico, questo movimento sonoro si identifica nelle due sillabe fonematiche Ham- Sa, i due principi dell’ Esistenza Assoluta (Sat) e dell’Esistenza individuale (aham), entrambi riuniti ed esaltati nel presente della pratica di Hatha Yoga.

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