di Antonella Filippone
Una premessa
Prima di analizzare le due esperienze di osservazione che abbiamo praticato nella scorsa lezione del corso di Pranāyāma, vorrei premettere due riflessioni che forse ci aiutano a capire questa relazione ed equivalenza fra la pratica dello yoga e la conoscenza del prānā.
Lo Yoga, una forma di abilità
Se lo yoga è, fra l’altro, una forma di abilità nel capire e dominare le nostre percezioni sensoriali, esaltando e valorizzando prānā, cioè la vita che si diffonde e permea il nostro corpo attraverso vari circuiti (nadi), il prānā a sua volta rappresenta proprio questo soffio vitale, questa potenza irrefrenabile che necessita di essere guidata e condotta al meglio, per dare al corpo (in tutte le sue accezioni) struttura e piacere. La mente, che non dovrebbe comunque essere una parte distante e inconoscibile del corpo, crea una specie di relazione d’amore, un innamoramento con il corpo stesso: questa tensione piacevole, questo stato di benessere, come in ogni relazione amorosa, si esplica con il calore, con l’attrazione, con la sensazione di invincibilità e potenza.
Shakti (prānā) sollecita e attrae Shiva (corpo/mente) perché da questi possa essere guidata a compiere la sua missione: dare vita, piacere, eccitazione.
Il piacere nello yoga
Il piacere nello yoga (e quindi nella vita) si concretizza, perciò, nel poter realizzare questo rapporto d’amore, questa intesa intima e unica fra intelligenza e forza vitale, fra mente ed emozione, riconoscendo la sovranità della prima sulla seconda. Una mente attiva, che non si lascia influenzare invano, che è gestita abilmente, andrà a percepire il piacere nel corpo (e in se stessa) in un modo più profondo, più duraturo e più creativo.
Dobbiamo lavorare sulla mente, allora, per risvegliare e accrescere le nostre capacità di provare piacere verso il corpo e per conoscere e ri-conoscere il nostro mondo interiore.
L’esercizio di osservazione di un edificio e di un volto
Come abbiamo sperimentato nella lezione, il lavoro sulla memoria oggettiva (ricostruire i particolari grandi e piccoli di un edificio e del viso di una persona) ha sollecitato il tocco intenzionale dello sguardo, cioè la nostra volontà che produce conoscenza. Senza l’intenzione, senza la volontà, non possiamo conoscere: la volontà si esplica in esercizi di astrazione e ridefinizione che via via fortificano le abilità della nostra memoria.
Quindi: ricordare (in questo caso i dettagli costitutivi di una casa, verso cui non ho un interesse emotivo, oppure quelli di un volto, verso cui potrei provare identificazione o allontanamento) può considerarsi un’attività volontaria che produce piacere. La mente può tornare più e più volte all’oggetto osservato, attraverso una serie di strategie e di procedimenti validi in ogni situazione.
Tali procedimenti confermano e alimentano le sue caratteristiche costitutive (fra le altre, la concentrazione, la creatività, l’elaborazione veloce dei pensieri, ecc.): la mente si ri-conosce e in questo senso prova piacere (che trasmette ovviamente e contemporaneamente) al corpo perché realizza la sua essenza.
Del resto fare/essere yoga (Hatha Yoga Mahat) vuol dire, fra l’altro, convalidare e arricchire il Sé.
Il Sé prova piacere nella sua affermazione (Ahamkara): essere il Signore dell’Universo ci dà la misura della nostra vita, ci dà l’idea della potenza di prānā che dobbiamo gestire, ci rende consapevoli (quindi poi liberi e non pashu) dei condizionamenti esterni.
Come per ogni sovrano così per la mente, è naturale esprimere il piacere “comandando”: la corretta attivazione volontaria della mente, per esempio nella facoltà di memoria, rende il nostro corpo vivo, ci fa essere prāni e non più cadaveri, cioè dei recipienti informi da riempire. Sono io il sovrano che decide cosa (e come veicolarlo) nel mio corpo, perché, amandolo, voglio ricordare e rinnovare sempre questo tipo di relazione.
Ed è perciò la mente, che essendo capace di osservare (ob-servare: tenere costudito), sceglie di analizzare e focalizzare intenzionalmente un elemento di prānā, per poterlo nominare e automaticamente ricordare (o forse, in italiano sarebbe ancora meglio dire ‘rimembrare’) e riprodurre.
In effetti, tendiamo a ricordare quello a cui abbiamo in partenza dedicato una maggiore forza percettiva: le immagini, gli odori, i sapori che si sono impressi via via nella nostra mente, se saputi ‘richiamare’ alla memoria, derivano da una operazione psichica cosciente e selettiva: quello che non ricordiamo non ha per noi né un nome né una sostanza.
In conclusione
Le due tecniche di osservazione che abbiamo seguito con le indicazioni preziose di Françoise (che ci ha guidato proprio con le parole da collegare ai particolari visti), hanno confermato uno dei principi cardine della pratica yogica. Il piacere (frutto dell’innamoramento fra corpo e mente, fra Shakti e Shiva) è uno stato mentale che si alimenta grazie alla conoscenza di prānā.
Più riesco a nominare oggettivamente gli aspetti che costituiscono la realtà (sia interiore che esteriore), più sarò in grado di ricordarli e di veicolare questa conoscenza all’interno del mio corpo: per farlo, dovrò comunque risvegliare la mia passione, l’ardore, la volontà, la determinazione.
Questi principi sono posseduti da chi esercita il potere, da chi si fonda su stesso (svayambhu), dallo yogin. Ancora una volta, dunque, praticare yoga, vuol dire (come abbiamo accennato all’inizio) valorizzare e usare al meglio la mente.